Entra nel vivo la caccia al nuovo amministratore delegato di Unicredit. Dopo il passo indietro del francese Jean Pierre Mustier, al vertice di piazza Gae Aulenti dal 2016, si è già riunito il comitato nomine, a cui partecipa anche il presidente designato Pier Carlo Padoan.
L’obiettivo è imprimere un’accelerata e completare il cambio della guardia entro il mese di gennaio, sia pure nell’ambito di un processo rigoroso. La crisi al buio e l’incertezza sul matrimonio con il Monte dei Paschi di Siena rischiano infatti di insidiare la stabilità finanziaria del secondo gruppo bancario italiano.
L’addio di Mustier è già costato caro all’istituto milanese: sull’onda dell’avvicendamento, Unicredit ha vaporizzato due miliardi e mezzo (oltre il 10%) di capitalizzazione in due sole sedute borsistiche.
Al punto che il consiglio è stato costretto a correre ai ripari, facendo trapelare con un comunicato anonimo che «il cda non accetterà mai alcuna operazione che possa danneggiare gli interessi del gruppo e in particolare la sua posizione patrimoniale». Un’indicazione volta a rassicurare gli investitori, che evidentemente non hanno gradito l’uscita di scena del banchiere ex Société Générale.
La perdita di valore di inizio settimana equivale, tra l’altro, all’aumento di capitale da 2,4 miliardi che Mps si prepara a varare, come parte di quel programma di “pulizie” che dovrebbe rendere Siena più appetibile per eventuali acquirenti. In particolare per Unicredit, perlomeno nelle speranze del governo.
È proprio in questa chiave che va letta la reazione del mercato alle dimissioni di Mustier: Piazza Affari sembra essersi persuasa che la fusione tra Unicredit e Mps sia ormai alle porte. E che il governo abbia manovrato i fili in questo senso fin dall’inizio.
«L’impressione del mercato è che sia stata una mossa etero-diretta dalla politica» spiega a Linkiesta Andrea Resti, professore di credit risk management all’Università Bocconi. «Anche l’arrivo di un ex ministro dell’Economia come presidente qualche settimana prima ha spinto in questa direzione. Francamente però mi sembra un’interpretazione semplicistica».
E la pensano così anche fonti sentite da Linkiesta a conoscenza del dossier: la trattativa con il Monte non avrebbe nulla a che fare con la mancata ricandidatura di Mustier.
Che i rapporti tra il cda di Unicredit e Mustier si fossero guastati da tempo è cosa nota. Come amministratore delegato, si è occupato di rimettere in piedi un gruppo che aveva subito gli effetti della crisi e problemi nella governance, con l’obiettivo di remunerare di più gli azionisti e ridurre i rischi.
Obiettivo che ha conseguito per mezzo di una maxi pulizia in bilancio, aumenti di capitale da 13 miliardi di euro e una riorganizzazione interna a tratti vorticosa. Senza contare le cessioni straordinarie inanellate, dalla polacca Bank Pekao alla quota in Mediobanca: una mossa che gli è valsa l’accusa di cedere i gioielli di famiglia.
«Mustier è stato molto deciso e audace nella pars destruens» commenta Resti, «quando si è trattato di fare legna tagliando i rami secchi dall’albero ha chiesto soccorso al mercato senza esitazioni. Ma ha anche privato Unicredit di società prodotto che consentivano una struttura di ricavi diversificata. E in alcuni settori, come la consulenza finanziaria e il trading online, meno soggetti al rischio di credito, che è il problema principale di Unicredit».
Le tensioni si sono inasprite dopo il blitz di Intesa Sanpaolo su Ubi, che ha smosso il cda sulla necessità di effettuare operazioni di aggregazione per rafforzare la presenza della banca nel Paese. Strategia verso cui Mustier si è sempre mostrato ostile, non perdendo occasione per ribadire al mercato il suo mantra: «no m&a» (no a fusioni o acquisizioni).
Ad aggravare una relazione già ai ferri corti ha contribuito il progetto di scissione degli asset stranieri da quelli italiani, attraverso una società separata da Unicredit da quotare sulla borsa di Francoforte. Era il “rischio Italia” – politico e finanziario (spread, remember?) – che Mustier intendeva neutralizzare. Ma l’ipotesi ha suscitato da subito perplessità nel consiglio, preoccupato che la divisione delle attività facesse da prologo al trasferimento di Unicredit all’estero.
Insomma, apparentemente le ragioni per un allontanamento – magari anche condiviso dalle due parti – non sembrano mancare, senza dover imputare per forza la regia al governo.
Che poi la questione Montepaschi vada gestita è sotto gli occhi di tutti. Come pure che Unicredit fosse in trattative con il Tesoro per una possibile acquisizione.
Sul tema il governo ha fatto importanti passi avanti per andare incontro alle richieste della banca meneghina, intenzionata a non intaccare la propria posizione patrimoniale, arrivando a mettere sul tavolo una ricapitalizzazione da 2 miliardi e mezzo e una dote da quasi 3 miliardi in crediti fiscali.
L’arrivo di Padoan in consiglio non ha cambiato questa linea ferma e l’ex ministro non ha assunto su Mps una posizione diversa da quella del resto del cda e dello stesso Ceo. Con l’uscita di Mustier è forse venuto meno un presidio contro il rischio di una fusione a ogni costo. Ma per una public company come Unicredit, con BlackRock – la più grande società di investimenti al mondo – come primo azionista, una fusione a ogni costo non sarebbe comunque un’opzione praticabile.
Come andrà a finire è tutto da vedere. «Ma in ogni caso, il salvataggio delle banche venete è stato un ottimo affare per Intesa Sanpaolo» commenta ancora Resti, «dunque non necessariamente intervenire a supporto di una banca in difficoltà si traduce in una diluizione di valore. Ci sono spazi per immaginare una soluzione di questa vicenda non penalizzante per gli azionisti».
Il tracollo in borsa del titolo Unicredit – che nel frattempo ha tentato un recupero – è stato forse il miglior regalo di congedo per Mustier, complice anche una gestione della comunicazione incerta da parte del consiglio. Il banchiere francese messo alla porta dalla politica italiana: è stata questa la narrativa dominante tra gli investitori.
«L’interpretazione del mercato non dispiace a Mustier» aggiunge Resti, «era visto come il manager che si rifiutava di portare a casa la fusione con Mps a condizioni non completamente favorevoli per gli azionisti. Ora che se ne è andato, il mercato reagisce proprio come se quelle condizioni non rassicuranti dovessero verificarsi».
E mentre il mercato si interroga anche sul toto-nomine provando a immaginare quale sarà il prossimo amministratore delegato, dalla banca filtrano informazioni generali, che più che un’identità riguardano un identikit.
La prima caratteristica che il nuovo numero uno dovrà avere è l’affidabilità presso la banca centrale: un aspetto indispensabile anche perché, in quanto banca sistemica, la nomina dovrà essere approvata proprio dall’Eurotower.
Non basta: a Unicredit serve una figura con un forte profilo internazionale, in grado di trattare con i grandi gruppi esteri e soprattutto di operare in uno scenario che va ben oltre i confini nazionali.
A restringere il cerchio dei candidati c’è un ulteriore requisito, la conoscenza della banca, per poterne sviluppare tutte le potenzialità. Questo accende i fari su una possibile scelta in casa Unicredit, anche considerando le difficoltà di adattamento di Mustier sia nei confronti delle strutture interne sia delle dinamiche nazionali.
E qui entra in gioco l’ultima importante caratteristica che sarà richiesta al nuovo Ceo: la capacità di dialogare con il governo, e più in generale con la politica italiana. Non solo per il pressing dell’esecutivo sul Montepaschi.
Le operazioni di aggregazione dipendono – in termini di crediti di imposta, autorizzazioni, poteri locali – anche dalla struttura istituzionale del Paese. E con tutto il mondo bancario in fermento – da Intesa a Banco Bpm, da Bper al Crédit Agricole – per partecipare alla partita del risiko sarà essenziale avere un amministratore delegato disponibile a interloquire con Roma. Soprattutto ora che anche in Unicredit è caduto il veto: «no m&a».