Nel giugno 2014 l’artista visuale Jani Leinonen ha aperto a Budapest un finto fast food, Hunger King, con l’intento di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla condizione dei 3,7 milioni di ungheresi che vivono al di sotto della soglia di povertà. Durante le tre settimane della performance il pubblico è stato diviso in due corsie: i ricchi potevano accedere a Hunger King su un tappeto rosso e acquistare le opere d’arte esposte all’interno, mentre i poveri, decisamente più numerosi, dopo sei ore di coda avevano diritto a una finta scatola di hamburger con dentro il salario minimo per una giornata di lavoro, l’equivalente di 13,60 dollari.
Leinonen, che tra le tante provocazioni ha hackerato le confezioni di avena di una nota marca finlandese rischiando una causa legale e ha decapitato una statua di Ronald McDonald per protestare contro la qualità del cibo, è un esempio di come l’arte possa trasformarsi in denuncia sociale facendo da specchio d’ingrandimento alla realtà.
Come nei dipinti di Marc Trujillo, dove i fast food e le corsie del supermercato, non-luoghi per eccellenza, diventano una gigantesca replica dell’America più profonda e desolata, il simbolo lampante della globalizzazione dove non esistono relazioni ma solo connessioni per dirla con il sociologo polacco Zygmut Bauman.
Se otto secondi è il tempo medio che un visitatore trascorre davanti a un quadro, allora passeggiare distrattamente tra le corsie di un discount non è poi tanto diverso dall’entrare in una galleria. A patto però di mettersi in modalità slow looking, concedendosi il tempo necessario per cogliere il messaggio dell’artista.
Lo diceva già Andy Warhol, «un supermercato non è diverso da un museo», sostenendo che una lattina di Coca Cola e un’opera d’arte si possano consumare in modi simili.
Le sue serigrafie riprodotte in serie mostrano che in realtà non c’è ripetizione e tutto ciò che guardiamo è degno della nostra attenzione. «Warhol ama a tal punto gli oggetti di massa da volerceli restituire come pezzi unici per farci accorgere del loro fascino inatteso, del loro essere, forse, la vera arte dei nostri tempi – spiega Riccardo Falcinelli in Cromorama. È come se dicesse: guardate quanta espressività c’è persino in un supermercato se solo abbiamo occhi per vedere».
Nell’ultimo anno, con i musei chiusi a causa della pandemia, la liason tra arte e grande distribuzione organizzata ha conosciuto un ritorno di fiamma. Durante il primo lockdown, il Migros di Mazara del Vallo, in provincia di Trapani, è diventato il palcoscenico di “10cents. Art at the supermarket”, format ideato dalla curatrice Giuseppina Giordano: l’edizione numero zero prevedeva opere d’arte tra gli scaffali, le voci di curatori e critici in filo diffusione e una raccolta fondi – cifra simbolica 10 centesimi da aggiungere al conto della spesa – per sostenere gli artisti coinvolti.
L’ultimo esempio in ordine di tempo a Napoli con “Aggiungi al carrello”, incursione d’arte organizzata dal gallerista Luigi Solito insieme con la curatrice Carla Travierso e Antonella Polito, tra i soci del punto vendita. Location, il food store Gourmeet trasformato per un paio di settimane in un supermercato/galleria.
Spiega Travierso: «L’ennesima chiusura di musei e gallerie ha creato un corto circuito con la città lasciando tutti noi orfani della compenetrazione tra arte e realtà, privandoci della possibilità di essere nutriti e fecondati attraverso la creatività degli artisti. Ma l’arte non è mai estranea all’esistenza ed è solo grazie ad essa che è possibile attraversare il mondo, toccarlo e farsi toccare».
Se dell’arte abbiamo bisogno come il pane, dicono Solito e Travierso, allora questa va riportata al centro della scena, nell’unico spazio in cui oggi ci è permessa la condivisione: il supermercato. D’altronde, tra un collezionista appassionato e una casalinga in cerca di offerte c’è più di una analogia: l’affare è sempre una questione di esperienza sul campo, fiuto per le occasioni e velocità d’azione.
Ecco quindi una serie di opere d’arte da consumare, si spera senza fretta, esattamente come il cibo che scegliamo sugli scaffali e ci portiamo a casa per gustarlo con chi come noi lo sa apprezzare.
Tra le opere esposte “Emma with marshmallows” di Ryan Mendoza sul complicato rapporto tra cibo e corpo; “Abisso”, imponente scultura in gesso di Christian Leperino; “L’articolo 32” di Francesca Matarazzo di Licosa, a metà strada tra il monolite di Kubrick e i maxischermi che diffondono le notizie in tempo reale; tra le casse dei limoni e l’insalata, la fusione in alluminio e ottone di Laura Niola “Cavolo nel polmone”, parte del ciclo “Signatura rerum”; “Ritratto di Valentino Zeichen”, realizzato da Maurizio Savini in chewing gum e pietra calcarea, proprio accanto al banco del pesce e della carne, in una perfetta operazione site specific.
«Abbiamo scelto di inaugurare la mostra nei giorni in cui tutta l’Italia era in zona rossa per mandare un segnale forte in un momento in cui tutti quanti ci sentiamo più isolati e vulnerabili – spiega il gallerista Solito. L’installazione è anche una sottile critica al sistema, in un momento storico in cui le opere sono trattate alla stregua di prodotti da piazzare sul mercato. «Con questa operazione ci piacerebbe riportare l’attenzione sul contenuto delle opere: non è il luogo a legittimare cosa è o non è arte ma è il messaggio dell’artista che deve tornare protagonista».
Dopo l’iniziale effetto sorpresa e un po’ di straniamento per la location insolita, il pubblico ha reagito con interesse e curiosità, racconta Solito. La soddisfazione più grande? «Quando il personale del punto vendita ci ha chiesto di saperne di più sulle opere in modo da poterle raccontare meglio ai clienti incuriositi». E l’esperimento non resterà l’unico: «Siamo già stati contattati da altre catene per organizzare eventi simili in altre città». Anche per l’arte, evidentemente, l’appetito vien mangiando.