In tutta l’Unione risiedono regolarmente 23 milioni di cittadini extracomunitari e 13.5 cittadini di uno Stato Ue che abitano però in uno Paese diverso da quello di cui hanno la cittadinanza. In percentuali, significa che gli extracomunitari sono il 5% della popolazione residente, i cittadini Ue che vivono in un altro Stato circa il 3%. (Dati Eurostat)
Come prevedibile, i tre Stati che ospitano più stranieri in rapporto alla popolazione sono i tre meno popolosi, dove anche numeri bassi sono sufficienti a far schizzare in alto le percentuali: Lussemburgo (48%), Malta (20%) e Cipro (18%).
I paesi dell’Europa centro-orientale e balcanica languono invece in fondo alla classifica: Romania (sotto l’1%), Polonia, Slovacchia, Bulgaria (1%), Ungheria (2%), Croazia (3%). Solo la Cechia raggiunge il 5% (circa 550 mila persone).
Se questi dati si riferiscono esclusivamente agli individui che hanno acquisito il diritto di vivere permanentemente nel paese in cui abitano, anche includendo le persone che possiedono altri tipi di documenti di residenza i numeri si alzano solo di qualche decimo. Come riportato da Kafkadesk, le autorità polacche stimano che i non polacchi in Polonia sia l’1.7% della popolazione complessiva (circa 450 mila individui), quelle slovacche il 2.2% (circa 120 mila).
Tradotto: i quattro Stati del Gruppo di Visegrád (V4) si confermano paesi pressoché monoetnici. Un’evidenza che stride, a prima vista, con la fama che i governi di questi paesi si sono costruiti negli ultimi sei anni: quella di difensori dell’identità etnica (variabilmente sovrapposta a quella religiosa) dei propri connazionali.
Questa retorica xenofoba è stata adottata, fin dalla cosiddetta emergenza rifugiati del 2015, dalla Fidesz di Viktor Orbán in Ungheria, dal Pis di Jarosław Kaczyński in Polonia, e meno aggressivamente anche dallo Smer di Robert Fico (fino alla caduta, nel 2018) in Slovacchia e dal movimento Ano 2011 di Andrej Babiš in Cechia.
Come noto, la crociata in difesa delle radici cristiane del continente scatenata da Orbán e soci ha bersagliato soprattutto gli individui di religione musulmana, sebbene anche loro siano pressoché assenti in tutta la regione: non raggiungono lo 0.5% della popolazione in nessuno dei quattro Stati.
Questo apparente paradosso non stupisce però gli addetti ai lavori. Come ricorda il report più recente sull’islamofobia in Europa (2019), «il fatto che le posizioni più ostili ai musulmani si trovino nei paesi dell’Europa orientale, dove vivono meno musulmani, conferma la teoria che il razzismo sia più una questione di percezioni che di numeri reali».
Che l’Europa post-comunista non sia un luogo accogliente – specie fuori dalle capitali – per persone di cultura e provenienza non europea non suonerà come una novità.
Tuttavia, distinguendo tra stranieri extracomunitari e stranieri con in tasca il passaporto Ue, il report dell’Eurostat illumina anche un dato meno citato dalle cancellerie mitteleuropee: gli Stati del V4 non sono Stati attrattivi.
Il cittadino Ue medio non pare interessato a trasferirsi in Europa centrale, nonostante l’impetuosa crescita economica che questi paesi stanno vivendo da quasi due decenni stia portando i tenori di vita sempre più vicini al livello di quelli dell’Europa occidentale.
Nel 2019, prima che giungesse la pandemia da coronavirus a scombinare le carte, Deutsche Welle sottolineava che, se considerati uno Stato unico, i quattro paesi del V4 sarebbero oggi la quinta economia più grande dell’Ue e la dodicesima nel mondo. Il caso più virtuoso, la Polonia, tra 1992 e 2019 è cresciuta del 4.2% su base annua. Una percentuale sorprendente considerando che il paese, con i suoi 38 milioni di abitanti, ha una taglia medio-grossa per gli standard europei. È il quinto più popoloso dopo Germania, Francia, Italia e Spagna.
Anche nell’anno del coronavirus, gli Stati del V4 hanno mantenuto tassi di disoccupazione bassissimi. Secondo i dati Eurostat, lo scorso settembre Cechia (2.8%), Polonia (3.4%) e Ungheria (4.4%) sono risultati, rispettivamente, il primo, il secondo e il quarto paese con il minor tasso di disoccupazione tra i 27 paesi membri. Solo la Slovacchia (7%), l’unico dei quattro a essere nell’Eurozona, si è avvicinata alla media Ue (7.6%).
Definire con esattezza quali siano le cause extra-economiche che rendono questi paesi poco appetibili al cittadino Ue è un’opera titanica, che esula dai limiti di questo articolo. Inoltre, crescita a parte, il fattore economico continua ad avere un peso: in Cechia, Slovacchia, Ungheria e Polonia gli stipendi restano sensibilmente più bassi della media comunitaria.
Si può ipotizzare, tuttavia, che anche il clima politico giochi un ruolo nello scoraggiare il trasferimento oltrecortina. Andando a intaccare il pluralismo delle società e la possibilità di auto-realizzazione del singolo, le politiche autocratiche perseguite da Fidesz e Pis rendono i loro paesi poco attrezzati per integrare e valorizzare quella manodopera qualificata cosmopolita che si trasferisce invece volentieri altrove. Per esempio, in Germania, Belgio, Danimarca o Svezia, dove peraltro beneficia anche di sistemi di welfare impensabili in Ungheria e Polonia.
I motivi possono essere svariati, ma il risultato resta lo stesso: questi due bastioni della cristianità nel Vecchio continente si ritrovano nella lista dei venti paesi al mondo destinati a spopolarsi di più nei prossimi tre decenni.