“Dammi un po’ di vino con l’Idrolitina” canta Franco Battiato in Zone depresse. Per rendere piacevole l’acqua del rubinetto nell’Italia povera ma dignitosa del Dopoguerra si aggiunge una miscela che la rende effervescente e le dà un retrogusto leggermente salato. Le polverine magiche hanno nomi leggiadri – Frizzina, Cristallina, Idriz – ma la più famosa è lei, l’Idrolitina. Sarà per quei manifesti pubblicitari che nel 1911, allo scoppio della guerra italo turca, tappezzano le città italiane con Giolitti in fez che offre l’Idrolitina ai militari in partenza per la Libia. L’effetto delle bollicine dura poco ma nessuno ci fa caso, soprattutto se fa caldo, la sete si fa sentire e come canta Battiato “donne sotto i pergolati a chiacchierare e a ripararsi un po’ dal sole, uomini seduti fuori dai caffè”.
Per chi non può permettersi la minerale, l’acqua viscì – come viene chiamata, dalla stazione termale francese di Vichy, famosa per la sorgente da cui sgorga un’effervescente naturale – è un piccolo divertissement. Bisogna essere veloci a versare le bustine, prima quella blu poi la rossa, e tappare subito la bottiglia altrimenti si rischia che trabocchi come fa lo champagne. La produce dal 1901 l’azienda del cavalier Gazzoni di Bologna, quella che poi negli anni Sessanta raggiungerà il grande pubblico tramite Carosello e un famoso concorso a premi che favoleggia l’italian dream sotto forma di gettoni d’oro e una pioggia di elettrodomestici Philips. Per tutti quelli nati fino agli anni Settanta, l’acqua in caraffa ha il retrogusto un po’ salato dell’Idrolitina.
Negli anni del boom va fortissimo anche il cibo in scatola. Concepito per scopi militari all’inizio dell’Ottocento, diventa una realtà commerciale grazie a Peter Durand che sfrutta il metodo scoperto dal francese Nicolas Appert: si fa cuocere il cibo, si imbottiglia e si sterilizza il contenitore immergendolo in acqua caldissima. Al posto del vetro, in Inghilterra iniziano a usare la latta, più leggera ed economica. Si narra che la battaglia di Waterloo fu anche uno scontro tra vettovagliamenti, tra il vetro francese e la latta inglese: com’era prevedibile, vinse il più forte e Napoleone finì in esilio a Sant’Elena.
In Italia parlare di cibo in scatola fa subito venire in mente la carne in gelatina Simmenthal (dalla razza di mucca svizzera Simmental). In una bottega di Milano Pietro Sada vende lesso in gelatina dal 1881; in occasione della trasvolata delle Alpi in mongolfiera, Sada offre il suo bollito in scatola come parte dei viveri trasformando la sua invenzione in un simbolo del progresso. Nel 1923 il figlio di Pietro, Gino Alfonso, inizia la produzione di carne in gelatina con il marchio Simmenthal.
Dopo la guerra, con l’Italia che va di fretta e le donne che iniziano a lavorare fuori casa, il lesso da mangiare davanti alla televisione spopola. È una sorta di italianissimo fast food – i proprietari sono originari di Crescenzago in provincia di Milano, il primo stabilimento è a Monza – che nelle calde sere d’estate diventa una cena estemporanea in stile “Quando la moglie è in vacanza”. Partiti producendo le scatolette per l’esercito, i Sada riescono a trasformare il rancio dei militari nel pranzo delle famiglie perbene, merito anche della pubblicità rassicurante e un po’ piaciona – «Symmenthalmente buona» ammicca Walter Chiari a Sylva Koscina – e di un gadget molto amato dai bambini dell’epoca: la scatoletta che faceva il verso della mucca quando veniva capovolta.
Oltreoceano c’è un’altra lattina famosa, quella bianca e rossa con la scritta in corsivo Campbell. La zuppa al pomodoro americana per eccellenza, molto prima che Andy Warhol la trasformasse in un’icona pop.
Riferisce The Kitchn che durante il periodo della Grande Depressione le casalinghe a corto di latticini iniziarono a preparare una misteriosa torta speziata utilizzando zuppa di pomodoro in scatola al posto del latte. Non ci volle molto perché Campbell’s Soup sviluppasse la propria ricetta e iniziasse a usarla per promuovere i suoi prodotti. Nel dopoguerra la torta, arricchita di burro e strutto, riscuote ancora più successo; dalla Louisiana al Delaware al Minnesota le casalinghe americane possono acquistare Campbell’s e sentirsi a la page; per inciso, Matt Lewis e Renato Poliafito del panificio Baked di New York oggi servono una versione cupcakes della torta al pomodoro con glassa al mascarpone.
La lattina più famosa d’America è sugli scaffali dei negozi di alimentari dall’inizio del Novecento, senza grandi cambiamenti. If it ain’t broke don’t fix it (se non è rotto, non aggiustarlo) dicono gli americani. La ricetta si deve a John T. Dorrance, chimico di professione, che ha un’intuizione geniale: diminuirne il peso per abbattere i costi di spedizione. Per farlo riduce l’ingrediente più pesante, l’acqua. La nuova formula ha un successo straordinario. Nel 1897 John T. Dorrance commercializza le prime lattine di zuppa condensata Campbell’s Soup Company; costano 10 centesimi e hanno un’etichetta blu e arancione. L’anno successivo il tesoriere e direttore generale Herberton L. Williams, ispirandosi alle divise di una squadra di football, decide di adottare il bianco e il rosso, che diventeranno da quel momento i colori distintivi del marchio. Quando nel 1962 Warhol la sceglie come soggetto pop(olare) dei suoi quadri la zuppa è uno dei prodotti più riconosciuti d’America.
Intuizione, fortuna, coraggio: cosa ci vuole per cambiare il corso della storia? A volte nulla di tutto questo. Chiedendo uno spuntino che non sporcasse le mani per poter continuare una interminabile partita a carte, John Montagu IV, conte di Sandwich, inventò o forse contribuì a rendere celebre il panino imbottito. Segno che le invenzioni spesso sono figlie del caso, o prendono strade diverse rispetto allo scopo per cui sono state pensate.
Quando nel 1892 Sir James Dewar, uno scienziato scozzese della Cambridge University, creò un contenitore sottovuoto per conservare a bassa temperatura i gas liquefatti non pensava certamente a un modo per servire il tè caldo durante le scampagnate. A sua insaputa aveva scoperto il thermos ma come spesso succede non ne capì la reale portata e non depositò il brevetto. Cosa che fece, nel 1904, un’azienda tedesca sfruttando economicamente la sua invenzione. Qualche anno più tardi la Thermos GmbH (dal greco thermós, calore) vendette i diritti di sfruttamento del marchio a tre diverse compagnie: The American Thermos Bottle Company di Brooklyn, New York, la Thermos Limited di Tottenham, Inghilterra, e la Canadian Thermos Bottle Company di Montreal che svilupparono una serie di varianti, molte delle quali utilizzavano ancora l’originale struttura di Dewar, rivestita in acciaio e, più tardi, in plastica.
I contenitori termici si costruiscono subito una reputazione di grande resistenza. Esploratori come Ernest Shackleton e Robert E. Peary lo usano per le loro spedizioni al Polo Sud e al circolo polare artico; i fratelli Wright portano un thermos sul loro aeroplano, il conte Zeppelin ne carica uno a bordo del suo aerostato.
Per un popolo di pionieri coraggiosi e individualisti pieni di energia e senso pratico, il thermos incarna il mito della frontiera e dopo la guerra diventa un potente veicolo pubblicitario. Nel 1953 Thermos lancia il primo contenitore in acciaio per il cibo, litografato con l’immagine di Roy Rogers, stella dei film western. L’operazione di marketing virale riesce a vendere 2 milioni di pezzi solo il primo anno. Ma se negli Stati Uniti il thermos evoca avventure alla Mark Twain, in Italia il contenitore ermetico vecchia maniera, quello con il tappo che diventa bicchiere, sa di pranzi al sacco e interminabili viaggi lungo la penisola. Nanni Loy lo ha reso immortale nel film Caffè express mettendolo nelle mani di Michele, campione dell’arte del tirare a campare, venditore abusivo di caffè sui treni del Sud. “Qua sta Michele, qua sta Michele che vi porta il vostro conforto, café, café lungo, latte e cappuccino, approfittate, non vi private delle piccole gioie della vita, oggi stiamo su questa terra e domani non ci state più”. Meglio un caffè caldo oggi che domani non si sa. Carpe diem.