Che la crisi economica scatenata dalla pandemia nel 2020 abbia avuto un impatto profondamente diseguale è cosa ormai nota. Ma non si tratta solo delle differenti sorti dei lavoratori, con giovani e donne che hanno pagato di più di coloro che potevano godere di un contratto a tempo indeterminato, spesso più anziani.
Una profonda crepa attraversa anche i settori produttivi, ed è ancora più vasta oltre che diversa da quella che che aveva riguardato l’economia durante la recessione precedente, quella legata alla crisi finanziaria del 2011-2013.
A differenza di quella, poi, va a colpire proprio quei segmenti e quei soggetti che erano già in una situazione più precaria della media e che vivevano da tempo un declino.
Un esempio molto chiaro è costituito dalle categorie che in modo un po’ freddo e tecnico l’Istat chiama le “famiglie produttrici”. Si tratta delle imprese individuali, delle società semplici fino a cinque addetti, degli autonomi. In sostanza, di coloro che possiedono piccole attività del commercio, della ristorazione. Ma anche i padroncini e il famoso «popolo delle partite Iva». L’uso del termine “famiglia” evoca il fatto che molto spesso si tratta di attività appunto familiari, che coinvolgono tutto il nucleo.
Ebbene, a livello di valore aggiunto, tra il 2019 e il 2020 queste hanno subito il tracollo peggiore.
Se nel complesso nell’economia italiana il valore aggiunto è diminuito del 7,8% e nelle aziende non finanziarie del 9,4%, nel caso delle famiglie produttrici il calo è stato di ben l’11,3%.
Non molto diverso il risultato lordo di gestione, in cui è incluso anche il costo del personale. In questo caso la perdita rispetto al 2019 diventa meno rilevante in generale, ma per le famiglie produttive parliamo sempre di un calo in doppia cifra, dell’11%.
Dati Istat
Mentre partite Iva e commercianti risultano essere quelli che hanno pagato di più, il settore statale non ha risentito per nulla della crisi, anche per l’incremento di spesa che c’è stato per contrastarla.
Ma il dato più rilevante è che non si tratta di una novità. Il fatto che i primi siano quelli che se la cavano peggio non è una caratteristica dell’annus terribilis 2020.
Anzi, sono ormai decenni che le famiglie produttrici vivono un lungo declino, accentuato a metà degli anni 2000 ed esplicitato negli anni 2020 con una stagnazione del valore aggiunto generato, mentre per gli altri settori vi era una pur lieve crescita.
In generale, il valore aggiunto complessivo è aumentato dell’81,2% in 24 anni tra il 1995 e il 2019, ma nel caso delle famiglie produttrici l’incremento è stato solo del 47,1%.
Dati Istat
Il crollo del 2020 ha colpito allora un mondo fatto di meccanici, di possessori di piccoli bar di provincia, di negozi di quartiere, di ristoratori, di negozianti al dettaglio, che già da tempo era in crisi relativa perché cresceva meno degli altri. Ora il calo delle entrate di relativo non ha più nulla, è esplicito, evidente.
C’è sia un tema quantitativo (sono diminuite le piccole attività, le micro-imprese), sia qualitativo, nel senso di produttività. Addirittura, a crescere numericamente negli ultimi anni sono state quelle con minore valore aggiunto, bar e ristoranti in testa.
Così l’iniezione di liquidità che nel 2020 ha segnato l’economia grazie ai sostegni diretti dello Stato e quelli indiretti sotto forma di garanzie al credito ha interessato in modo deciso le famiglie, solo quelle consumatrici però, ovvero la larga maggioranza, e le aziende non finanziarie. Nel primo caso l’accreditamento netto, ovvero la liquidità a disposizione, è passato da meno di 24 miliardi a più di 116, mentre nel secondo da meno di 13 a quasi 38.
Molto più limitato, inferiore a 5 miliardi, il miglioramento per commercianti, negozianti, autonomi vari e piccolissimi imprenditori. Non sono stati loro ad approfittare del grande indebitamento delle amministrazioni pubbliche.
Dati Istat, in milioni di euro
Il gap tra la condizione di coloro che consumano solamente e che guadagnano da un lavoro subordinato rispetto a quella di chi, invece, produce e le cui uniche entrate vengono dal proprio fatturato risulta evidente anche dai dati. Soprattutto dalla differenza tra i redditi da dipendenti e quelli complessivi disponibili, che quindi includono anche eventuali sussidi, e gli introiti da attività autonoma, imprenditoriale o da rendite.
I primi scendono molto, sì, del 6,9%, ma meno dei secondi, che crollano del 9,6%, più di quanto sia mai accaduto in precedenza. E questo nonostante la cassa integrazione abbia tamponato i danni – ma solo per i dipendenti a tempo indeterminato, come si sa.
Il maggior calo del reddito complessivo è quindi dovuto alla perdita di entrate per autonomi e piccoli imprenditori.
Dati Istat
La rabbia strisciante che portano nelle piazze, spesso in modo maldestro e frammentato, è strumentalizzata, certo. Ma è reale e viene da lontano.
Nasce da un declino che forse non è stato capito in primis da chi l’ha subito. Causato da un’inevitabile globalizzazione che non risparmia chi non si adatta e non è produttivo. E aiutato ora da una pandemia di cui nessuno ha colpa direttamente.
Se non di colpa, tuttavia possiamo parlare di responsabilità di chi ha voluto ignorare negli anni i problemi di un settore così frammentato e debole, e che impattano tutto il sistema, non solo i commercianti e gli autonomi stessi diretti interessati.
La politica ha preferito puntare il dito contro la globalizzazione o il “neoliberismo” anziché provare a fornire strumenti per poterli affrontare meglio, come il caso dei pastori sardi insegna.
Oggi dopo il coro di supporto a ristoratori e baristi, dopo gli appelli per maggiori sussidi forse anzi sarà ancora più difficile dire cose impopolari ma necessarie per aiutare un intero settore dell’economia, ancora molto vasto e popoloso, a essere meno frammentato e fragile.