I deprecabili fatti di martedì 6 aprile sono da condannare senza se e senza ma.
Ciò premesso è giusto cercare di approfondire la questione per non rischiare, da una parte di classificare e sminuire le violenze come evento isolato, dall’altra per cercare di comprendere meglio la natura di un disagio che, al di là degli eccessi che mai dovrebbero essere raggiunti, è reale e diffuso in tutto il Paese.
La categoria dei ristoratori sta subendo molto e con essa tutta la filiera di contorno, un esercito di lavoratori che spesso definiamo fondamentale per la bilancia commerciale, soprattutto in una nazione come l’Italia, che del turismo non fa solo una bandiera, ma un vero e proprio asset economico che regge le sorti della sua economia.
In questi mesi le associazioni di categoria – pur senza un’azione unitaria, che probabilmente avrebbe giovato – hanno cercato di evidenziare tutte le criticità che emergevano, a seconda della situazione del contagio e dei limiti a essa correlati. Oggi la sintesi è semplice e impietosa, perché ciò che effettivamente è mancato è un congruo e tempestivo ristoro, che permettesse a tutti di resistere per il tempo necessario, in modo che gli imprenditori potessero fronteggiare le spese fisse e che ai dipendenti fosse garantita una quotidianità dignitosa.
La coperta è corta, lo sappiamo, l’Italia, pur essendo una delle cosiddette potenze economiche, ha un’economia fragile, un debito da lungo tempo eccessivo, che pesa sulle casse dello stato e impedisce di garantire a tutti, in casi come quelli che stiamo affrontando, un sostegno sufficiente. Sgombriamo il campo, perché se Atene piange, Sparta non ride, infatti anche nazioni ritenute più solide come la Germania, dopo un immediato iniziale finanziamento alle attività imprenditoriali, ha rallentato e diminuito anch’essa il fiume di denaro utile per sopportare il peso di tutte le chiusure che si stanno susseguendo da più di un anno.
Va anche detto che non va giustificato chi usa la scusa di un fatturato dichiarato inferiore all’incasso per pretendere ristori più alti rispetto a quelli dovuti. Il malcostume di “fare nero” se proprio vogliamo, è un danno, soprattutto, per i dipendenti, non per l’imprenditore che, risparmiando sulle imposte, potrebbe, in teoria, aver accantonato risorse.
Il problema etico, comunque, seppur da rilevare, non si pone, perché obiettivamente, finora anche per chi, la stragrande maggioranza vogliamo credere, si comporta bene, pagando tasse e stipendi regolari, non si può dire che ci sia stato un adeguato sostegno per superare questo momento che sembra infinito.
Tuttavia, osservando le proteste di questi ultimi giorni, purtroppo, appare chiaro come il livello di scontro sociale stia aumentando in modo preoccupante, con le diverse categorie di imprenditori e lavoratori che cercano di sorpassarsi l’un l’altra nell’alzare la voce, quasi che il disagio abbia una classifica da rispettare.
Il livello di guardia sembra vicino, perché non vale più neppure la campagna vaccinale in corso, seppure con i rallentamenti dovuti a una non ancora adeguata fornitura di vaccini, a rassicurare i ristoratori. La disperazione sta prendendo il sopravvento e il timore che, nonostante il prevedibile abbassamento dei contagi delle prossime settimane, ciò non garantisca comunque una riapertura adeguata che permetta di tornare ai livelli di fatturato pre-covid, è un macigno sul futuro della ristorazione.
Il Governo deve fare di più, è innegabile, deve ascoltare i rappresentanti della categoria, provare a immedesimarsi in quello che è ancora l’imprenditore medio italiano, una famiglia o una piccola società di persone che conduce un’attività che deve garantire un fatturato sufficiente a mantenere se stessi e i propri dipendenti.
La categoria, da parte sua, perdonate l’ossimoro, deve far sentire la voce della maggioranza silenziosa che resiste da mesi ed è pronta a ripartire con determinazione il giorno in cui l’uscita dalla fase di emergenza lo permetterà.
Solo così da Ristodisperazione potrà ritornare a essere RistorAzione.