FortunaCosì Gelormini ha raccontato il tradimento degli adulti

Scene dominate dal tema del doppio, una storia che viene raccontata due volte, con atmosfere diverse, cupe e sinistre. Il film parte da un fatto di cronaca ma, spiega il regista, preferisce alludere e non mostrare. Per dare un senso nuovo alla realtà

frame del film “Fortuna”

Parlare dell’orrore senza mostrarlo. Calarsi in un fatto di cronaca brutale, ma cercarne una resa diversa, che punti alla poesia. “Fortuna”, il film di Nicolangelo Gelormini, è una favola nera ispirata all’omicidio di Fortuna Loffredo, la bambina di cinque anni che fu scaraventata dall’ottavo piano al Parco Verde di Caivano (Napoli) dall’uomo che abusava di lei. Una storia terribile, raccontata con delicatezza, giocando sul non detto e costruito tenendo lontano ogni approccio di tipo realistico.

Il film comincia con la vita della bambina Nancy, ha una madre accudente (Valeria Golino) e una psicologa distratta (Pina Turco), in un mondo pastellato e senza giocattoli dove è una principessa (m incombono i giganti). A un certo punto tutto cambia, o meglio: si scambia. Si ricomincia da capo, le due attrici assumono il ruolo dell’altra, l’atmosfera è degradata è Nancy si chiama Fortuna e i giganti diventano un pericolo vero.

«Questa scelta è stata fatta in fase di scrittura – spiega il regista a Linkiesta –  L’idea centrale del film è quella del tradimento, quello degli adulti nei confronti dei bambini. E per questo abbiamo insistito sul tema del doppio, che ne è il segno. Una doppia vita, un doppio ruolo, un cambiamento che si rivela disturbante. La prima parte trova il suo contrappunto nella seconda, che la contraddice in ogni aspetto».

Potrebbe essere la differenza tra immaginazione e realtà, ma non è così facile. Tutto il film è costruito «sul non detto, che nel cinema viene rappresentato con il fuoricampo»: il risultato è un esperimento dai toni poetici. «Il canone naturalistico non è il mio linguaggio. So che la scelta è un azzardo, almeno rispetto a una tradizione che c’è in Italia. Ma i produttori che hanno scelto me per fare il film non volevano ricostruire un fatto di cronaca, ma un film di finzione, che potesse però restituire un senso alla realtà. È, in un certo senso, la mia calligrafia».

I toni sono pacati ma l’atmosfera è disturbante, inquieta. «Per ottenerla ho lavorato sul fuori-quadro, e su una combinazione disarmonica delle architetture, delle musiche, della fotografia, dell’estetica. Tutto andava in una direzione diversa, creando con queste dissonanze un certo stress nello spettatore». Ma è ricercato, come è voluto il fatto che «nonostante sia un film piccolo, soprattutto a confronto con altre produzioni uscite in questi giorni, lascia una scia. Qualcosa su cui pensare nei giorni successivi». È l’effetto dell’irrisolto, il celato, il suggerito.

A muoversi sulla scena sono soprattutto donne. C’è Valeria Golino «eterea, straordinaria, come attrice e anche come regista. Con lei ho avuto scambi a più livelli», ma anche Pina Turco «una forza primordiale, oro colato che viene fuori dalla Terra e che sa essere qualcosa di profondo, di viscerale», mentre la giovanissima Cristina Magnotti «è l’epifania del talento. Aveva già lavorato ne “L’amica geniale”, ma qui ho avuto la sorpresa e la fortuna di vedere emergere, davanti ai miei occhi, del talento puro, del genio. Lo è nel comprendere il ruolo, nello stare sul set».

Grandi attori si nasce, insomma, «credo di sì. Anche perché è un mestiere che più di altri si fa se si ha vocazione. Riuscire a farlo con naturalezza, quasi senza mai stancarsi, come se non ci si vedesse da fuori (anche se lo si fa, è proprio quello che un attore sa fare), è da pochi».

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