Se il giornale più amichevole arriva a titolare «Il M5s non regge il governo», come si poteva leggere ieri sul Fatto quotidiano, vuol dire che la situazione è giunta a un punto critico («Non riescono a darsi un nuovo capo, figurarsi un assetto, e nel governo Draghi stanno sempre più scomodi», era l’incipit dell’articolo a firma di Luca De Carolis).
Il punto più basso probabilmente è stato toccato due giorni fa – ma forse è solo perché da quel momento in poi ho distolto lo sguardo – quando Vito Crimi ha spedito un valoroso team di «esperti informatici e periti forensi» presso gli uffici dell’Associazione Rousseau per ottenere i famosi elenchi degli iscritti, senza però trovare nessuno, come ha subito fatto sapere Davide Casaleggio in uno sghignazzante controcomunicato, spiegando che i dipendenti sono in cassa integrazione proprio a causa dei mancati versamenti al centro della controversia tra grillini e casaleggesi.
Sempre a margine della questione legale, ci sarebbero molti irresistibili dettagli da raccontare, che gli appassionati già conoscono, come l’incredibile vicenda sarda. Qui infatti il pasticcio innescato dal ricorso contro l’espulsione della consigliera Cuccu ha scoperchiato l’incredibile farsa della democrazia interna, in un movimento dove i famosi stati generali, dopo un anno di strazio, sono stati chiusi da un improvviso ripensamento del sovrano, lasciando i cinquestelle di fatto senza un vertice formalmente riconosciuto. Di qui la nomina, da parte del tribunale di Cagliari, di un curatore speciale, nella persona dell’avvocato Silvio Demurtas, rispettabile signore che al Riformista ha spiegato di alzarsi presto la mattina per dedicarsi alle bestie («trenta pecore e qualche maiale»), di avere una moglie kenyota imparentata con gli Obama («la nonna di Obama è imparentata con mia moglie. Abbiamo tante foto insieme, io e la famiglia Obama») e già ad aprile, parlando con l’Adnkronos, non escludeva sviluppi clamorosi del suo mandato («In quanto rappresentante legale del Movimento 5 Stelle, se ci fossero le consultazioni io potrei salire al Quirinale da Sergio Mattarella»). Sfortunatamente, giusto ieri il Tribunale ha deciso di revocargli il mandato e di sostituirlo con un altro avvocato, di cui al momento non sono noti né la disponibilità di bestiame, né eventuali parentele illustri.
Resta comunque l’evidente impossibilità, per Giuseppe Conte, di districarsi dal soffocante intreccio di ricorsi, ricatti e ridicolo che sta stritolando nella culla il suo progetto. Per alcune ragioni che somigliano molto a un contrappasso.
La prima ovviamente è l’idiozia della democrazia diretta e il modo in cui il Movimento 5 stelle si è legato mani e piedi a Casaleggio. La seconda è l’idiozia della crociata per l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, che rende ancora più sanguinosa la battaglia legale di cui sopra, e molto più complicato mettersi in proprio. La terza è il limite dei due mandati, forse l’unico principio che i cinquestelle non si siano ancora rimangiati, per ovvie ragioni di tempo.
Confermarlo significherebbe infatti dichiarare l’imminente pensionamento di tutta la prima linea, da Luigi Di Maio a Roberto Fico, suscitando le reazioni che è facile immaginare da parte degli interessati, cioè mezzo partito. Ma rinnegarlo, considerando anche gli effetti del taglio dei seggi parlamentari (la parola «contrappasso» l’ho già usata, vero?), significherebbe togliere ogni speranza di rielezione a tutti gli altri, cioè fare infuriare l’altra metà. Motivo per cui il gigantesco gruppo parlamentare grillino, ancorché già decimato dagli abbandoni, è una specie di gigantesca variabile impazzita che fa saltare tutti i conti e tutte le equazioni della politica italiana, dalle prospettive del governo all’elezione del prossimo presidente della Repubblica.
È dunque evidente, mettendo da parte faziosità e preferenze di ciascuno, che una soluzione ragionevole del problema è interesse di tutti. Direi che è proprio un interesse della Repubblica, e infatti il problema può essere risolto solo con spirito repubblicano, da una maggioranza di unità nazionale non meno larga di quella che attualmente sostiene il governo Draghi. In breve, ripristinando subito il finanziamento pubblico diretto ai partiti (così che anche il nuovo partito di Conte possa beneficiarne); riaumentando appena possibile il numero di seggi (così che anche i parlamentari grillini possano avere una speranza di rielezione) e facendo una seria legge sui partiti, in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, che renda ogni ipotesi di pseudodemocrazia diretta in stile Rousseau semplicemente impensabile, così da risolvere anche quel problema (ai cinquestelle, e a tutti noi). Già che ci sono, aggiungerei il ripristino dell’immunità parlamentare, anche per il valore simbolico dell’operazione, che sancirebbe il ritorno della democrazia parlamentare e la fine del trentennale regime populista. In cambio, ai grillini non chiederei altro che un impegno solenne a non sostenere mai più simili pericolose fesserie, come si è visto dannose per loro e per il prossimo. Una sorta di implicita clausola di non ricostituzione del disciolto partito populista.
L’alternativa è sperare che la spirale autodistruttiva dei cinquestelle non faccia altri danni, e cercarsi ciascuno un riparo, dove e come possibile, da cui guardarli andare in malora. Esito che comunque, trattandosi di un partito nato in un «Vaffa Day», potrebbe anche considerarsi un ritorno alle origini.