Bottiglie famoseChiamami con il mio nome 2 (la vendetta)

Può il design diventare l’elemento distintivo di una bevanda? Storie di contenitori famosi almeno quanto il loro contenuto: dalla bottiglia Contour della Coca-Cola alla salsa di soia Kikkoman fino al vaso dell’Amarena Fabbri

 Nel 1899 Joseph Whitehead e Benjamin Thomas, due avvocati di Chattanooga, si recarono ad Atlanta per negoziare i diritti della bottiglia Coca-Cola. Fino a quel momento, la Coca-Cola era venduta al bicchiere e il suo consumo in costante crescita. L’intenzione dei due avvocati era quella di sfruttare la popolarità della bevanda imbottigliandola, in modo che potesse essere consumata anche al di fuori delle quattro mura di un chiosco.

The Coca-Cola Bottling Company iniziò a concedere in esclusiva i diritti a imbottigliare la Coca-Cola in diverse città degli Stati Uniti e nel giro di vent’anni le vendite sia al bicchiere che in bottiglia aumentarono vertiginosamente. Questa popolarità portò decine di concorrenti a cercare di imitarne il marchio, nonostante la presenza del logo impresso su ogni bottiglia.

Nel 1914, l’avvocato Harold Hirsch lancia una appassionato appello alla comunità di imbottigliatori che è una chiamata alle armi: «Non stiamo costruendo solo il presente della Coca-Cola. Stiamo costruendo il futuro della Coca-Cola, e ci auguriamo che rimanga sempre la bevanda nazionale per eccellenza. I dirigenti delle vostre aziende stanno facendo tutto il possibile, con spese considerevoli, per realizzare una nuova bottiglia, che sia una nostra creatura. Quando la troveremo, chiedo a ogni membro di questa convenzione di non concentrarsi sul costo che il cambio di bottiglia comporterà, ma di ricordare che nell’adottare quella bottiglia, la società madre sta cercando di tutelare i vostri stessi diritti. State per raggiungere il successo, ma è una questione di cooperazione». Otto aziende di lavorazione del vetro furono invitate a ideare una «bottiglia dai tratti così distintivi da poter essere riconosciuta a occhi chiusi o addirittura frantumata a terra».

A vincere è la versione proposta dalla Root Glass Company, una forma sinuosa ispirata a una fava di cacao con scanalature sui fianchi realizzata in vetro verde, poi denominato “Georgia Green” (verde Georgia) in omaggio allo stato d’origine di The Coca-Cola Company.

Primo brand a comparire sulla copertina del Time, nel 1950, la bottiglia fu ribattezzata in vari modi nel corso degli anni: tra i soprannomi più interessanti hobbleskirt, gonna a tubino, Mae West, in onore delle forme sinuose dell’attrice, e contour bottle apparso su Le Monde nel 1925. Quello della Coca-Cola è senza dubbio il packaging più riconosciuto al mondo ma non è l’unico caso in cui contenitore e contenuto diventano tutt’uno.

Depero e la bottiglia del Campari

Non si può pensare a Milano senza il Campari. Come la Madonnina, il teatro alla Scala, la nebbia fa ormai parte dell’immaginario collettivo legato alla città. Eppure pensiamoci: cosa sarebbe l’aperitivo rosso per antonomasia senza la sua veste triangolare? Forse nemmeno Fortunato Depero immaginava di creare un’icona mentre lavorava al prototipo in legno della futura bottiglietta. La bevanda made in Milano è già un mito durante gli anni del Ventennio: dal grammofono, Fernando Crivel canta con enfasi “Questa è l’ora senza pari, questa è l’ora del Campari”. Nei bar del centro si beve il Bitter Campari e il Cordial Campari, rispettivamente aperitivo rosso rubino e liquore con lamponi macerati nel cognac. Nel 1932 arriva il Campari Soda, ovvero bitter con l’aggiunta di soda. L’innovazione è notevole: nella bottiglietta di vetro a forma di calice rovesciato la bevanda è già miscelata nelle giuste proporzioni e non serve più il sifone. A disegnare la silhouette inconfondibile è il genio futurista di Depero che per Campari produsse una mole impressionante di disegni e bozzetti, rimasti per la maggior parte inediti.

Ma se l’estetica del brand è storia nota e affidata ad altre firme importanti – dopo Depero sarà la volta di Milton Glaser e negli anni Ottanta di Ugo Nespolo – il contenuto della bottiglietta resta top secret. Tutto inizia a metà Ottocento nel piccolo laboratorio di Gaspare Campari, di professione liquorista, che trafficando con erbe e alambicchi crea una bevanda dolceamara a media gradazione alcolica. La formula segreta, più vecchia di quella della Coca-Cola, passa al figlio Davide che prenderà le redini dell’azienda a fine Ottocento trasformandola in uno dei brand più noti al mondo.

Cedrata Tassoni e la bottiglia a buccia d’agrume

Altro brand da sempre molto attento all’immagine è Tassoni, storica azienda italiana nata come spezieria a fine Settecento sulle sponde bresciane del lago di Garda. Quando nel 1868 il nobile Nicola Tassoni l’acquista, vi trova annessa una distilleria dove si prepara l’estratto idroalcolico di cedro. Qualche anno dopo Tassoni rivende l’attività a Paolo Amadei che separa la farmacia dalla distilleria e avvia la produzione industriale con la Cedral Tassoni.

Nel 1921 nasce lo sciroppo di cedro Tassoni, una bevanda da diluire in acqua e sorseggiare d’estate per ritemprarsi. “È buona e fa bene” recitano i manifesti liberty; lo sciroppo piace così tanto che l’azienda tenta di replicarne il successo al bar, lanciando nel 1956 una versione già perfettamente dosata, la Tassoni soda, un analcolico giallo canarino, frizzante, dal sapore dolce e leggermente acidulo. Sono gli anni del boom e in televisione Mina all’apice del successo presta la sua voce per una pubblicità che farà epoca: “Quante cose al mondo puoi fare, costruire, inventare… ma trova un minuto per me”. La stessa pubblicità che dal 1982 ogni anno Tassoni manda in onda tale e quale ad allora, in una perfetta operazione nostalgia che segna l’inizio dell’estate.

La bottiglia sfoggia un design essenziale che fa a meno persino dell’etichetta – inizialmente la scritta Tassoni era impressa direttamente sul vetro – segno di forza di un brand che non ha bisogno di presentazioni. Impugnandola quello che colpisce di più è la texture, rugosa come la buccia dei cedri dal cui olio essenziale si ottiene l’aroma naturale che caratterizza la bibita.

Fabbri e il vaso banco e blu

Esiste qualcosa di più iconico del vaso bianco e blu dell’Amarena Fabbri che tutti quanti abbiamo visto almeno una volta? Un contenitore sinuoso, simile a un prezioso vaso cinese, custodito nella credenza delle nostre nonne. Nel 1915, a Bologna, Gennaro Fabbri insieme alla moglie Rachele Buriani vende la Marena al frutto in damigiane. È convinto però che quella ricetta inventata dalla moglie meriti di uscire dal retrobottega e raggiungere le vetrine delle pasticcerie. Ci vorrebbe un contenitore pregiato in grado di appagare gli occhi prima ancora dell’assaggio, pensa. È un sognatore Gennaro Fabbri, uno che vede lontano e anni prima, nella distilleria di Portomaggiore in cui ha iniziato l’attività, ha già inventato Primo maggio, il liquore dei lavoratori con tanto di falce e martello in etichetta, e l’Amaro Carducci, un omaggio al poeta appena insignito con il Nobel.

Il vaso lo commissiona a un ceramista faentino, Riccardo Gatti, che gli consegna uno scrigno in ceramica bianca con i fiori blu che sembrano tratteggiati a china. Una ghiotta intuizione come quel logo, con i caratteri tipografici curvati a ricordare il gesto del dito che si piega per raccogliere l’ultima goccia di sciroppo.

Heinz e il barattolo da spremere

A proposito di raccogliere fino all’ultima goccia: Heinz è stata una delle prime aziende a pensare che bastasse capovolgere il barattolo per far scendere più facilmente il ketchup. D’altronde si sa che ne rimane sempre un po’ dentro la confezione e bisogna assestare qualche colpetto sul fondo per farlo scendere. Così nel 2020, con una buona dose di autoironia, Heinz ha creato un puzzle/rompicapo in limited edition la cui soluzione richiede la stessa pazienza che ci vuole per svuotare il barattolo, annunciando l’evento con un post sui social: «Heinz sa che le cose buone richiedono tempo. E in questo momento abbiamo tutti un po’ più di tempo, così abbiamo creato questo. 570 pezzi, tutti rosso Heinz».

La famosa confezione top down è solo una delle tante innovazioni del ketchup più popolare al mondo. Il fondatore, Henry John Heinz, è il classico uomo che si è fatto da solo: inizia a vendere prodotti provenienti dall’orto di sua madre a 8 anni e a 25 anni fonda l’azienda che porta il suo nome. Il suo motto è: “to do a common thing uncommonly wellbrings success”, fare una cosa ordinaria in maniera straordinaria. Inizia a commercializzare i suoi prodotti in bottiglie trasparenti per mostrare al mondo la qualità e la purezza degli ingredienti. È convinto che per ottenere il meglio sia necessario seguire il processo dall’inizio, così utilizza solo pomodori nati da semi Heinz e finalmente nel 1904 perfeziona la ricetta senza conservanti del suo Heinz Tomato Ketchup. Centocinquant’anni dopo la ricetta è la stessa: pomodori da semi Heinz, aceto, zucchero, sale, spezie ed estratti di erbe aromatiche.

Kikkoman e il mini dispenser

Esiste una salsa di soia che non sia Kikkoman? Ovviamente sì ma la prima immagine cui uno pensa è la graziosa bottiglietta dal tappo rosso venduta in ogni angolo del Pianeta con uno strano logo esagonale che ricorda il guscio di una tartaruga. Il nome somma le parole giapponesi kikko, guscio di tartaruga, e man, diecimila, ed è un augurio di longevità e salute.

La storia di Kikkoman è ultracentenaria e risale al 1600, quando gli antenati della famiglia Mogi a Noda in Giappone iniziarono a produrla utilizzando soia, frumento, acqua e sale. La diffusione su scala mondiale risale al dopoguerra quando venne lanciata in America come condimento “per tutti gli usi”. Ciò che ha contribuito a renderla così riconoscibile è la bottiglia, disegnata nel 1961 da Kenji Ekuan dopo tre anni di studio: «Ricordavo mia madre che conservava la salsa di soia in contenitori giganti e pesanti. E poi era costretta a versarla con fatica in bottiglie più piccole». Kenji Ekuan disegna un dispenser maneggevole e leggero con un tappo rosso che grazie alla presenza di due buchi laterali consente di versare piccole quantità di prodotto. Un capolavoro di design umile ma capace di conquistarsi un posto al museo di arte moderna di New York.

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