Quand’ero piccolo, mio padre non parlava mai direttamente della sua infanzia e non faceva mai il minimo riferimento alle sue radici tedesche. Pareva quasi che non fosse mai stato bambino. Non parlava mai dei suoi genitori né dei suoi nonni. Non nominava mai gli amici né i luoghi dove giocava, viveva o andava a scuola e non forniva notizie di alcun tipo sugli anni della sua formazione.
Toccò a mia madre dirmi un giorno, nella cucina di casa nostra, quando avevo otto anni, che mio padre, poche settimane dopo il suo dodicesimo compleanno, era partito da solo da Berlino con una piccola valigia. Più di questo neanche lei avrebbe saputo dire: neanche a lei mio padre aveva mai raccontato l’intera storia. Come disse mia madre, mentre io ero lì in calzini sul pavimento freddo e grigio di ardesia, «non gli piace parlarne».
Barlumi di informazione sul suo passato emergevano nei casi in cui qualche altro parente fuggito dalla Germania veniva a trovarci in Galles, ma queste visite erano rare e fugaci, e l’immancabile risposta alle mie domande era: «Fatti gli affari tuoi».
Di tanto in tanto, qualche dettaglio emergeva inaspettatamente anche in famiglia: una volta, mentre mia madre serviva un pan di Spagna, mio padre si ricordò della consistenza della torta di semi di papavero che faceva sua madre; in un altro caso rievocò la capacità di sua madre di tenere tutti i piatti caldi quando serviva la cena, mentre mia madre già faticava a servire su piatti freddi il cibo che cucinava.
Una volta, arrivò a casa nostra una grossa cassa piena di posate rotte. Avevano la lettera “L” incisa sui manici: un residuo dell’argenteria di famiglia. Fu messa nel garage, e per mio padre diventò un evidente motivo di agitazione, anche se io da bambino non capivo perché.
C’erano anche altri comportamenti che non capivo: l’odio per le Volkswagen e il disprezzo per le Mercedes, al punto che quando vedeva passare un’auto di queste due marche – evento insolito, perché all’epoca sulle strade del Galles praticamente ne giravano pochissime – sbottava, quasi sputando le parole: «Auto schifosa!». Pretese che nessuno dei suoi figli studiasse tedesco a scuola e che non entrassero in casa nostra libri sulla Seconda guerra mondiale; non fece mai riferimento a Hitler né all’Olocausto e ci invitava spesso a «stare alla larga dalla folla».
La madre di mio padre, nonna Ruth, era sopravvissuta alla guerra. Dato che i genitori di mia madre erano morti entrambi prima che io compissi due anni, nonna Ruth era l’unica, tra i nonni, che fosse ancora viva, ma viveva a Berlino Est e non poteva “passare il Muro”, e dato che mio padre non la sopportava e parlava con lei solo una volta all’anno, al telefono, d’inverno, io l’ho incontrata solo tre volte: la prima quando avevo tredici anni e mio padre mi portò a trovarla a Berlino Est, e poi altre due volte in Galles, quando avevo poco più di vent’anni, e a lei era stato concesso di uscire dalla Germania Est per far visita a mio padre.
In quei casi, avrò passato un paio d’ore con lei, ma mai da solo. Lei se ne restava zitta perché non sapeva l’inglese e io non sapevo il tedesco. All’epoca, le domande che avevo bisogno di porle non avevano ancora preso pienamente forma, nel senso che non sarei riuscito a farle domande utili neanche se avessimo avuto una lingua in comune.
L’effetto dell’assenza di mia nonna e del silenzio di mio padre su quelle questioni è stato che, come famiglia, abbiamo stupidamente abitato per lunghissimo tempo in un mondo ignoto e inspiegabile pieno di silenzi e di lutto inespresso.
da “L’ombra di Berlino. Vivere con i fantasmi del Kindertransport”, di Jonathan Lichtenstein, Mondadori, 2021