«È stato detto giustamente che le costituzioni sono anche delle polemiche, che negli articoli delle costituzioni c’è sempre anche se dissimulata dalla formulazione fredda delle disposizioni, una polemica. Questa polemica, di solito è una polemica contro il passato, contro il passato recente, contro il regime caduto da cui è venuto fuori il nuovo regime». Così Piero Calamandrei in un suo celebre discorso, svolto a Milano, nel salone degli Affreschi della Società Umanitaria il 26 gennaio 1955.
Poi, insistendo sul medesimo concetto, proseguiva: «Se voi leggete la parte della Costituzione che si riferisce ai rapporti civili politici, ai diritti di libertà, voi sentirete continuamente la polemica contro quella che era la situazione prima della Repubblica, quando tutte queste libertà, che oggi sono elencate e riaffermate solennemente, erano sistematicamente disconosciute».
Era sicuramente in polemica contro il passato regime anche l’articolo 49: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale»; una polemica contro un ventennio di dittatura di un solo partito. In una Carta Costituzionale, però, la polemica con il passato (spesso determinata da cesure nette e drammatiche) si traduce necessariamente in ordinamenti, regole scritte e materiali (come si diceva un tempo della Costituzione del 1948), ma anche negli assetti di potere. Quella che viene impropriamente definita, con l’aggettivo di Prima, era sicuramente una “Repubblica dei partiti”, i quali non si limitavano “a determinare la politica nazionale”, ma esercitavano un dominio spartitorio sulla vita politica, civile ed economica della società italiana.
I partiti con le loro ideologie (sempre più smorte) organizzarono a loro immagine e somiglianza tutte le articolazioni di una società complessa (dai sindacati alle associazioni sportive e culturali) e fino a quando fu loro possibile le sottoposero a un’unica centrale di comando, anche se con lo sviluppo della società si determinarono delle convergenze di interessi (si pensi all’unità d’azione dei sindacati o delle associazioni professionali) che consentirono forme di autonomia d’iniziativa.
Ma il primato, la sintesi, la fonte della legittimazione rimasero sempre nella politica: l’utilizzo di un eufemismo per non dire nei partiti. Il regime delle forze politiche si logorò; il tramonto delle ideologie mise in crisi i vincoli di appartenenza. Il liberi tutti indotto dal crollo del Muro di Berlino non travolse solo i partiti comunisti, ma privò di gran parte delle ragioni d’essere i partiti stessi di governo. La palla di neve che provocò una inarrestabile e devastante valanga fu una mazzetta di qualche milione di lire appena estorta che il concussore non riuscì a far sparire nel water all’arrivo della Guardia di Finanza su preavviso del concusso.
La polemica contro la Repubblica nacque sotto l’emblema delle manette. Ne furono protagoniste le Procure (in toga come gli ayatollah), sotto l’egemonia di quella di Milano. Non occorse molta fantasia per far cadere il sistema come una pera fradicia: bastò svelare ciò che tutti vedevano senza farci caso, i finanziamenti illeciti. E da lì che partì l’onda lunga della canea giustizialista. Un’arma che dapprima fu usata sul terreno della lotta politica per sconfiggere avversari che non erano mai stati battuti nelle urne; poi dilagò e si rivoltò come antipolitica.
I partiti – grandi protagonisti del secondo dopoguerra e tutto sommato artefici di un Paese che era divenuto membro del G7- si arresero, si misero a nutrire il coccodrillo nella speranza di essere divorati per ultimi (copyright Winston Churchill), fecero a gara per dare prove di sottomissione ai nuovi poteri costituiti, nell’ambito stesso dell’ordine giudiziario. Una casta sacerdotale che impose la sua saharia fino ad elevarla a livello della morale pubblica (onestà, onestà!). A questo proposito ha scritto pagine memorabili Filippi Sgubbi, nel suo “Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi” edito da Il Mulino.
Si staglia, secondo l’autore, nel contesto di una giustizia penale sempre più avulsa dalle sue finalità, la fattispecie della responsabilità penale senza colpa (dal binomio innocente/colpevole si passa al binomio puro/impuro). In sostanza, il reato è diventato una colpa per talune categorie sociali: non nel senso tradizionale di uno specifico fatto – sostiene Sgubbi – commesso da una persona e connotato da colpevolezza; bensì come un male insito nell’uomo e nel suo ruolo nella società. Il reato e la colpa sono uno status che precede la commissione di un fatto. Assomiglia, per gli “impuri”, al peccato originale.
Non si tratta di una colpa generale inerente alla persona umana come tale, ma è legata al ruolo sociale ricoperto o alla tipologia dell’attività che svolge nella vita (in particolare, la politica, ndr). Così talune categorie sociali sono “pure” per definizione e prive di colpa; anzi la loro condizione di illegalità, talvolta, è creatrice di diritti. Gli appartenenti ad altre categorie, invece, dovranno dimostrare la loro contingente ed episodica purezza (un innocente è solo un colpevole che l’ha scampata); cioè sono costretti a provare che in quella circostanza eccezionalmente non gli può essere imputato nulla.
Per gli impuri la salvezza penale è ardua perché devono vincere la presunzione di colpevolezza e superare l’inversione dell’onere della prova. È la casta; e in quanto tale è condannata a un costante e immanente sospetto di illecito. Si è cominciato e si continua così. Il fatto è che questi abusi dello stato di diritto sono tuttora sorretti da un vasto consenso.
Gli ayatollah hanno fondato una setta religiosa molto diffusa che ha trovato sbocco anche in politica. Ed è quella religione il fondamento della Seconda Repubblica. All’improvviso, tuttavia, nel Sinedrio dei Supremi Guardiani è scoppiata la crisi; è venuto allo scoperto l’uso e l’abuso dei vizi che loro criticavano negli inquisiti. Come i maiali di Orwell che, nella “Fattoria degli animali” si mettono a camminare su due gambe e assumono le abitudini degli umani.
Ma chi è in grado di sostituire centro di potere beatificato nel corso dei decenni? Chi è in grado di riformare una Chiesa se non un’eresia? Chi ha il coraggio di affiggere 93 tesi sul portone di Palazzo dei Marescialli se non un altro Martin Lutero? Soprattutto quando la Santa Inquisizione è già attiva da tempo e diffusa in tante casematte inespugnabili, da cui non vengono lesinate le scomuniche.