Il Parlamento italiano non c’è più. Non segue più un ordine razionale, una disciplina politica seria, riconoscibile e coerente. È diventato un posto dove ognuno fa come gli pare, e tutto è permesso, come dice Ivan Karamazov.
L’implosione del Movimento 5 stelle fa deflagrare in modo clamoroso e forse irrecuperabile l’assetto già pericolante di suo uscito dalle ultime elezioni, e già prima del big match fra Beppe Grillo e Giuseppe Conte (ironia della sorte, due non parlamentari) era tutto un fiorire di scomposizioni dei gruppi parlamentari.
Nessun dubbio: se non vi fosse un governo sostenuto da una maggioranza di quasi unità nazionale, voluto dal Presidente della Repubblica e diretto da uno statista di prim’ordine, con un Parlamento ridotto com’è ridotto, in Italia regnerebbe l’anarchia. È una questione politica di prima grandezza che non si risolve con le strane norme anti-cambi di casacca escogitate dal Partito democratico.
Il wrestling che si combatte all’interno dei gruppi parlamentari pentastellati, che in due anni hanno già perduto il 30% dei loro componenti iniziali, simile a una gigantesca rissa tra ubriachi, tende a paralizzare il Parlamento: ai “normali” problemi politici si aggiunge così la totale imprevedibilità dei comportamenti di deputati e senatori del più forte gruppo parlamentare.
Chi risponde per il Movimento 5 stelle? A nome di chi parlano i capigruppo? Con chi bisogna parlare in una trattativa? Perché il Parlamento è fatto così: rispecchiando, più o meno, gli orientamenti del Paese, è costruito per dar loro una forma e un ordine trasparenti e razionali, così che i cittadini possano agevolmente verificare cosa si sta facendo del loro voto.
Se già molti decenni fa Piero Calamendrei vedeva il rischio di un Parlamento «sprovvisto di effettivo potere, ridotto a un semplice ufficio di registrazione dei compromessi politici combinati e conclusi senza alcuna sua (del popolo, ndr) partecipazione», oggi la situazione è molto peggio, davvero sull’orlo del precipizio, giacché nulla è visibile e nulla è razionale, nulla è prevedibile e nulla è verificabile.
Ecco dunque i pericolosissimi effetti collaterali della gran tragedia grillino-contiana che va a intersecarsi con continui e non sempre nobili cambi di casacca (siamo a 259 dall’inizio della legislatura, con questo ritmo si può battere il record, 569, della passata legislatura). Due soli esempi, ma importanti, del caos che regna sovrano nel Parlamento della Repubblica.
Mercoledì 7 le aule di palazzo Madama e di Montecitorio dovranno votare i quattro consiglieri d’amministrazione della Rai, appunto, di nomina parlamentare. Occorre in questi casi un super-accordo col bilancino, perché bisogna tenere conto delle aspirazioni dei partiti e contestualmente della parità di genere.
Lo schema “in vigore”, ovviamente non dichiarato, è di un consigliere gradito al Partito democratico, uno ai Cinquestelle, uno alla Lega e uno a Fratelli d’Italia. Bene: chi è il nome grillino? Secondo un primo accordo avrebbe dovuto esprimerlo Conte: ma adesso? Avrebbe i voti necessari se per caso la fazione “grilliana” dovesse opporsi? E chi assicura che le due fazioni osserverebbero disciplinatamente le indicazioni sui nomi avanzati dagli altri partiti? E in questo caos, quali gruppi si accollerebbero la responsabilità di indicare una donna?
Al momento, Enrico Letta è determinato a indicare proprio una donna, Francesca Bria, economista e grande esperta di tecnologie, molto vicina a Andrea Orlando e stimata dal segretario, ma la questione è evidentemente ancora tutta aperta: il combinato disposto tra le forti perplessità nei gruppi dem e l’inaffidabilità grillina rendono la partita pericolosa e forse suggeriscono di cercare alternative.
Impossibile dunque fare previsioni. Ma questo andazzo sta seccando molto palazzo Chigi, che deve esprimere i nomi dell’amministratore delegato e del Presidente dell’azienda di viale Mazzini e assiste con un certo sconcerto alle dinamiche impazzite del Parlamento italiano. Con il rischio che la questione slittino a settembre, mentre il Cda è scaduto.
Il secondo esempio riguarda la legge Zan, che è già un problema politico in sé. Ieri il Corriere della Sera riferiva di un ultimo incontro tra i partiti in cui «si sentivano sbattere i pugni sul tavolo» a testimonianza della pratica impossibilità di arrivare a un accordo su un testo sul quale già si addensano i pericoli del voto segreto, un disegno di legge che parte in un clima di contrapposizione fra centrodestra e centrosinistra e sul quale si appuntano dubbi e perplessità di vario tipo.
Martedì la conferenza dei capigruppo deciderà la data del suo arrivo in aula – il 13 – in un Senato impazzito. Stante tutti i problemi, a cui si aggiunge la totale imprevedibilità delle fazioni pentastellate, la sua approvazione sembra un miracolo.
E non si capisce davvero la ragione per cui il Partito democratico voglia una conta rischiosissima che affonderebbe una legge di civiltà invece di provare a creare le condizioni per un compromesso accettabile. E chi può escludere che qualche fedele a Grillo diserti una battaglia impervia?
In questa situazione nessuno, o per senso di responsabilità o per opportunismo, dice una ovvietà che in tempi normali sarebbe l’abc: e cioè che la patologia di questo Parlamento è ormai incurabile. Che bisognerebbe eleggerne uno nuovo. Non lo dicono i partiti responsabili ma nemmeno chi ha il terrore di perdere lo scranno. Siamo in una situazione eccezionale, e si andrà avanti così, come a mosca cieca, senza un Parlamento e senza una sana dialettica politica. E meno male che c’è un governo che governa.