Mario Draghi è alla vigilia delle nomine più controverse, quelle del Presidente e dell’Amministratore delegato della Rai. Il dossier è sul suo tavolo e le decisioni sono previste per la metà di giugno.
Nessuno spiffero da Palazzo Chigi, in ossequio allo stile di Bankitalia che il premier ha trasferito nel suo governo, ma è certo che si sta per giungere alla stretta finale: l’unica cosa sicura è che il tandem al vertice di viale Mazzini sarà costituito da un uomo e da una donna e in questo quadro sembra ancora forte il nome di Raffaele Agrusti quale Amministratore delegato – come già scritto su Linkiesta – l’uomo che la società specializzata di “cacciatori di teste” Egon Zehnder ha indicato come il più affidabile per il ruolo di razionalizzatore della spesa, un grande esperto di conti che già aveva lavorato con il direttore generale Antonio Campo Dall’Orto.
In alternativa, come figura femminile, si parla di Laura Cioli, molto apprezzata dal ministro per l’innovazione tecnologica Vittorio Colao con cui lavorò ai tempi di Vodafone. Cioli, un lungo curriculum (oltre Vodafone, Eni, Sky, Cartasì, Rcs, Gedi), potrebbe incarnare l’idea di una nuova mission per il servizio pubblico aperta a tutti gli sviluppi. Altro nome, Marinella Soldi, già in Discovery. In ribasso Tinny Andreatta, già Rai e oggi in Netflix.
Ma al di là dei nomi su tutto sorge un interrogativo. Non c’è alcun dubbio sul fatto che Mario Draghi voglia mettere mano alla Rai con l’intento di farne un’azienda produttiva e “ripulita” da antiche e nuove incrostazioni, almeno in parte (nessuno è così sprovveduto da pensare che di punto in bianco i partiti facciano un passo indietro): ma la domanda che bisogna porsi è se, step by step, si potrà costruire una semplice riforma di buon senso oppure una rivoluzione dell’azienda in grado di consentirle di vincere le sfide epocali della comunicazione contemporanea. Se cioè, come ha scritto Stefano Balassone sul Domani, «sulle sabbie mobili possa prendere il volo una riforma strutturale della Rai».
Una Rai “draghiana”, insomma, inserita nel più ampio quadro di modernizzazione del Paese indicato dal Piano di resistenza e resilienza. I dubbi però sono enormi, e del tutto comprensibilmente, perché viale Mazzini è pur sempre una casamatta di potere e generatore di consensi in mano ai partiti (e al corollario sindacale), partiti che non mostrano grande interesse a una riforma epocale del servizio pubblico e che appaiono viceversa, persino più di prima, attaccati alle pratiche spartitorie e anti-meritocratiche che imperano da anni a Saxa Rubra.
Più chiaramente, la cosa da capire è se per Mario Draghi la Rai sia considerata un’azienda strategicamente decisiva per il rilancio del Paese oppure no. Se cioè vada applicata al servizio pubblico una “cura riformatrice” tipo quella che si vuole somministrare, che so, alla giustizia o alla pubblica amministrazione, o invece si ritenga l’informazione pubblica un pezzo importante sì ma non strategico ai fini della modernizzazione strutturale italiana, nel qual caso è sufficiente tenere i conti in ordine e semmai promuovere un rinnovamento anche profondo del piano editoriale senza però svellere le strutture di potere dell’azienda, senza cioè rimuovere le cause di fondo dell’arretratezza della Rai come soggetto del villaggio mondiale della comunicazione.
È chiaro che il presidente del Consiglio dovrà procedere per gradi. Sapendo – come detto – di non avere grandi alleati nei partiti, i quali, per legge, dovranno nominare 4 componenti del Cda, incrociando pesi politici e parità di genere: un rompicapo. Gli accordi sono ancora tutti da fare.
Attualmente i quattro sono spartiti così: uno del Partito democratico, un Cinquestelle, un leghista, uno di Fratelli d’Italia. Chi può giurare che lo schema resti questo? Intanto il presidente del Consiglio, dopo le nomine in perfetto stile “draghiano” di Cdp e Ferrovie, si appresta a fare la sua parte a cospetto della più irriformabile delle aziende pubbliche, la Rai: vedremo fin dove arriverà a “draghizzarla”.