La data del febbraio 1943 segna un punto di svolta nella crisi del regime perché il terremoto governativo deciso da Mussolini con il licenziamento in tronco di nove ministri su dodici (tra cui Grandi, Bottai e soprattutto Galeazzo Ciano) rappresenta l’estremo, disperato, tentativo del duce d’invertire una rotta già segnata. O l’ultima illusione – se si vuole – di poter modificare il corso degli avvenimenti con un ennesimo coup de théâtre mirante, soprattutto, a scaricare su alcuni dei principali gerarchi le proprie responsabilità e, al tempo stesso, a dimostrare a uno Hitler allarmato per le sue precarie condizioni di salute e quindi sempre più diffidente sulla tenuta del regime, di avere ancora il pieno controllo della situazione.
È inoltre un tentativo volto a recuperare consensi popolari e a contrastare quel clima di «disfattismo» che – a suo parere – prendeva sempre più piede nei gangli vitali del Paese. Ma l’operazione politica si rivelerà un buco nell’acqua e lo stesso Mussolini dovrà riconoscerlo; così, come vedremo, non avrà maggiore fortuna per le sorti del duce la decisione di nominare il generale Vittorio Ambrosio, fedelissimo del re, al vertice delle forze armate.
Da quel mese di febbraio in poi, fino al pomeriggio del 25 luglio, il processo di caduta del regime diventa verticale e segue un ritmo accelerato i cui tempi sono scanditi non solo e non tanto dal logoramento del fronte interno quanto dalle sconfitte militari patite dall’Asse sui vari scenari bellici (orientale e nordafricano) e soprattutto dal trauma provocato dallo sbarco angloamericano in Sicilia.
A nulla approdano i reiterati tentativi di Mussolini di indurre l’alleato tedesco a fermare le operazioni con la Russia staliniana con una pace di compromesso (magari con il supporto di una mediazione giapponese) e a concentrare, piuttosto, il suo interesse prioritario nel Mediterraneo, dirottando in tale area strategica una parte consistente delle proprie divisioni.
È il tragico capitolo della cosiddetta «guerra lunga», la fase cominciata nel 1942 dopo l’intervento dell’Urss e degli Stati Uniti, che ha sconvolto le speranze di un conflitto «breve» coltivate dal duce nell’anno e mezzo precedente. Una guerra che condanna lo stesso Mussolini ad un ruolo sempre più subalterno rispetto a Hitler. Una guerra che, con i bombardamenti a tappeto angloamericani, diventa presto un incubo collettivo per l’intero Paese, diffondendo in tanti la consapevolezza che essa fosse irrimediabilmente perduta; un sentimento che fa anche da detonatore al coacervo d’interessi che teneva ancora in piedi il regime.
La frustrazione condiziona i comportamenti di tutti i protagonisti della vita italiana (Corona, militari, gerarchi, industriali, Vaticano, oppositori prefascisti e antifascisti) e si traduce in una serie di contatti volti a cercare una via d’uscita attraverso approcci, in qualche caso romanzeschi o addirittura maldestri, con gli angloamericani per arrivare a una pace separata, cercando di aggirare il muro della resa incondizionata sancita da Churchill e da Roosevelt a Casablanca. Approcci sempre più pressanti che coinvolgeranno lo stesso Mussolini, il quale finirà per dare il suo assenso ad un tentativo in extremis di Bastianini di cercare, con la mediazione vaticana, un contatto con Eden.
Questo libro si sofferma sulla condotta dei vari attori, protagonisti e comprimari, che dominano la scena nel semestre fatale, in un intreccio di posizioni e di iniziative non sempre di facile lettura.
Fedele al principio vichiano secondo cui verum ipsum factum, cioè il fatto s’identifica con il vero ed è testimonianza di verità, l’indagine cerca di individuare e di discernere, senza pregiudizi di sorta – sulla base della documentazione e della memorialistica disponibile – gli aspetti abbastanza chiari rispetto a quelli ancora oscuri o misteriosi degli avvenimenti che hanno portato al crollo del regime fascista.
Ebbene, i fatti dimostrano in maniera palese che – a mano a mano che la situazione militare peggiora – la capacità di Mussolini di controllare e di orientare gli eventi si riduce progressivamente e il ruolo del duce diventa sempre meno incisivo. Egli sembra conscio che la ruota della fortuna abbia cominciato a girargli contro e di essersi cacciato in un vicolo cieco.
«Fin dall’ottobre del ’42 – scriverà nei Pensieri pontini e sardi – ho avuto un presentimento continuamente crescente che la crisi mi avrebbe travolto». Tuttavia, il dittatore non mostra mai propositi rinunciatari. Neanche durante e dopo la drammatica seduta del Gran Consiglio, poche ore prima del suo licenziamento.
Afflitto dalle crisi ricorrenti provocate dall’ulcera duodenale, Mussolini appare instabile, alterna momenti euforici di autoillusione ad altri di cupo abbattimento. È sovente frastornato, stanco. Vive in sostanziale solitudine il suo crepuscolo e talvolta dà l’impressione di non rendersi conto di quanto avviene intorno a lui o alle sue spalle.
Sottovaluta le «fronde» dei gerarchi e le congiure contro il regime che prendono consistenza tra le pieghe della crisi. Soprattutto quella dei militari che, dai primi mesi del ’43, avviano i preparativi del colpo di Stato, con l’impulso di Ambrosio, di Castellano, di Carboni e di altri generali che occupano posti chiave come Sorice e Hazon, in sintonia con il ministro della Real casa Acquarone, sotto lo sguardo costante di Vittorio Emanuele III.
Si tratta, in questo caso, di un percorso accidentato, che deve fare i conti con le paure, le diffidenze, le ritrosie del vecchio monarca, il quale indugia a lungo prima di dare il via libera alla destituzione di Mussolini. Tuttavia è lui, il «piccolo re», che fissa i tempi dell’intervento dei militari suggerendo, su un altro versante, a Grandi la via di un voto del Gran Consiglio come «surrogato» di una delibera parlamentare di sfiducia nei confronti del duce, allora irrealizzabile; insomma, quella copertura costituzionale di cui aveva bisogno per conferire un’immagine almeno apparentemente legalitaria alla congiura.
Ma l’input decisivo al colpo di Stato, con l’investitura di Pietro Badoglio quale successore del duce, precede e prescinde dalle iniziative di Grandi, Bottai e Federzoni per raccogliere adesioni intorno all’ordine del giorno che sarà poi approvato dal Gran Consiglio e avrà un valore aggiuntivo rispetto a una decisione già presa dal re.
Per essere più chiari: non risponde alla verità dei fatti che il voto del Gran Consiglio rappresenti l’elemento necessario e determinante che spinge Vittorio Emanuele III a liquidare Mussolini; così come appare assai poco probabile che i gerarchi «frondisti» o almeno alcuni di loro non sapessero dell’imminente colpo di Stato sotto l’egida del sovrano e che ignorassero la scelta di Badoglio, sebbene non la condividessero.
È una rilettura dei fatti, questa, che trova conferma da taluni documenti in gran parte inediti (come il memoriale di Leonardo Vitetti) ma anche dalla condotta di alcuni dei protagonisti della seduta del Gran Consiglio. Una ricostruzione che, ovviamente, nulla toglie al coraggio dimostrato da Grandi e dagli altri gerarchi dissidenti nell’affrontare a viso aperto Mussolini a Palazzo Venezia e quindi nel patire duramente le conseguenze della loro sfida.
Certo, nell’indurre il monarca a sciogliere le residue riserve giocano anche altri fattori, a cominciare dalle minacce di un intervento militare di Hitler, soprattutto dopo il vertice italotedesco di Feltre. Né i punti oscuri relativi al crollo del regime si esauriscono in quei venti minuti in cui Vittorio Emanuele III congeda il primo ministro e autorizza il suo arresto.
Ancora oggi è difficile comprendere come e perché Mussolini abbia liquidato come «romanzi gialli» tutte le voci che gli venivano puntualmente riferite sulle congiure ai suoi danni e non abbia preso alcuna contromisura. Possibile che sia stato rimosso senza che nessuno nel suo entourage sospettasse che egli non avrebbe lasciato Villa Savoia da libero cittadino? Possibile che il Sim, l’Ovra, con le loro reti capillari di spie, fossero totalmente all’oscuro dei piani dei militari «golpisti»?
Stesso discorso può riferirsi, in qualche modo, all’alleato tedesco. Hitler e i suoi collaboratori sospettavano da tempo dell’esistenza di una congiura contro il regime fascista, eppure i loro rappresentanti a Roma si sono lasciati sorprendere dalla destituzione di Mussolini e dalla sua «scomparsa» malgrado la presenza nella capitale di migliaia di agenti della polizia segreta germanica infiltrati nei ministeri, nei comandi militari e persino nel Comando supremo.
Sono interrogativi che pesano. Così come di quelle ore cruciali restano ancora insoluti altri aspetti misteriosi sui quali cercheremo d’indagare: dai possibili piani alternativi di Grandi al ruolo del Vaticano, dalle mosse del principe Umberto ai contatti interni e internazionali di alcuni dei principali esponenti del mondo antifascista, soprattutto di quello azionista, particolarmente attivo.
Sullo sfondo c’è poi un ulteriore interrogativo che riguarda direttamente il sovrano e il suo rapporto con Pietro Badoglio. Scegliendo il successore di Mussolini, Vittorio Emanuele III ha agito in totale autonomia, ispirato soltanto dalla convinzione che, tutto sommato, il maresciallo godesse ancora di una certa popolarità soprattutto tra i militari oppure sono entrati in gioco altri fattori, legati magari alla presunta appartenenza di Badoglio (e – si è detto – anche dello stesso sovrano) alla massoneria?
Qui siamo – occorre precisarlo – nel campo delle ipotesi. Le verifiche andranno compiute con molta cautela, evitando anzitutto le trappole dei presunti complotti giudaico-massonici alimentati dalla propaganda di Salò.
Ma non c’è dubbio che l’ombra di una presenza massonica aleggi su gran parte dei protagonisti della congiura militare di Palazzo Vidoni. E troverà conferma anche nella testimonianza inedita di un personaggio che potremmo definire, in questo caso, presumibilmente informato dei fatti, cioè Dino Grandi.
Un’ombra che non esclude il Quirinale, se lo stesso Vittorio Emanuele III – dopo aver scartato il nome di Caviglia come possibile successore di Mussolini per la sua presunta affiliazione massonica – sarà ripagato con la stessa moneta dal glorioso maresciallo, che lo accuserà di aver scelto Badoglio proprio per farsi perdonare dalla massoneria di averla «tradita» con Mussolini.
Insomma, molte tracce sulla fine ingloriosa del ventennio fascista restano ancora confuse. Il regime si dissolve nel silenzio. Quasi nell’indifferenza di chi avrebbe potuto o dovuto difenderlo. Un disinteresse che contribuisce a certificare la morte politica di Mussolini, giacché quella dei venti mesi del duce redivivo, installato da Hitler a Salò, sarà tutta un’altra storia.
da “Come muore un regime. Il fascismo verso il 25 luglio”, di Paolo Cacace, Il Mulino, 2021, pagine 360, euro 25