Lista dei sogniMichel vuole l’autonomia strategica dell’Unione europea, ma non spiega come ottenerla

In una lunga intervista a Le Grand Continent, il presidente del Consiglio europeo spiega che l’Unione deve poter avere più influenza negli scenari internazionali per non rimanere schiacciata tra Stati Uniti e Cina. «È un bene anche per i nostri alleati: è sempre meglio essere in un'alleanza in cui tutti i partner sono forti e hanno la capacità di agire»

LaPresse

Dopo anni di vuote discussioni l’autonomia strategica europea non può più aspettare: l’Unione deve poter avere più influenza negli scenari internazionali, dotandosi anche di un esercito europeo. Secondo Charles Michel è questa la lezione che i leader europei devono trarre dal caotico ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan. 

«Che una delle potenze economiche più forti del mondo come l’Unione Europea, una potenza democratica che porta valori estremamente forti, una potenza militare composta da ventisette Stati, non sia in grado di garantire da sola, senza il sostegno degli Stati Uniti, l’assistenza necessaria per evacuare i suoi cittadini e gli afgani che l’hanno sostenuta, deve preoccuparci», ha detto il presidente del Consiglio europeo in una intervista concessa alla rivista di geopolitica Le Grand Continent.

«A volte è necessario ricorrere alla capacità militare, a volte allo sviluppo o addirittura al sostegno umanitario in nome della stabilità. Dobbiamo utilizzare le numerose leve a nostra disposizione, ma dobbiamo farlo in modo sufficientemente coordinato, sia a livello di Unione europea che tra gli Stati membri. Per avere più influenza dobbiamo usare meglio queste leve, con molta più costanza», ha spiegato Michel.  «Nessuno dei paesi dell’Unione Europea – anche il più potente, il più inventivo, il più innovativo – può da solo esercitare la sua influenza sui poteri economici, militari o geopolitici che difendono la loro visione o i loro interessi. Lo spazio politico europeo nel suo insieme ha la capacità di esercitare un’influenza reale».

Nell’intervista a Le Grand Continent il presidente del Consiglio europeo non ha risparmiato qualche frecciata agli Stati Uniti. Rimanendo nei limiti delle dichiarazioni diplomatiche Michel ha fatto capire che l’Unione europea è stata ignorata da Washington nei negoziati coi talebani portati avanti mesi prima del ritiro durante l’amministrazione Trump.

Per Michel la priorità agli interessi americani è diventata un tendenza strutturale e Joe Biden è in continuità col suo predecessore. «È stato osservato negli ultimi tempi che possono esistere divergenze di vedute sugli interessi, o sulle modalità di raggiungimento degli obiettivi. Questo non è solo limitato all’Afghanistan, ma riguarda altre questioni internazionali, in particolare Siria e Iran».

Dopo il bastone, la carota. Per Michel, Joe Biden ha migliorato i rapporti tra Washington e Bruxelles, ma più sul fronte climatico che su quello geopolitico. «Assistiamo ora al ripristino di un dialogo più normale e fruttuoso che ci ha permesso, in pochi mesi, di sviluppare convergenze su temi molto importanti per i nostri comuni interessi. L’amministrazione Trump aveva una visione binaria e semplicistica del mondo: “Io sono forte, tu sei debole. E se tu sei forte, io sono debole”».

Quindi l’autonomia strategica europea sarebbe come sgarbo all’alleato americano che trascura gli interessi europei? Sì e no. Per Michel l’autonomia strategica europea dovrebbe risolvere due problemi: il primo è l’incapacità cronica di Bruxelles di influenzare gli altri Stati se non con le deboli armi del soft power. Perché i milioni di euro aiutano ad affittare i nemici, ma non a convincerli, come insegnano i miliardi dati dagli Stati Ue al leader turco Erdogan per non far arrivare in Europa milioni di migranti. 

Secondo, una autonomia strategica  aiuterebbe Bruxelles a non rimanere ostaggio della rivalità tra Cina e Stati Uniti, trovando nuovi modi di interagire (e commerciare) con Pechino senza cedere sul rispetto dei diritti umani, ma allo stesso tempo  senza seguire in modo meccanico la linea di Washington, cooperando per esempio su temi comuni, come la gestione dell’emergenza sanitaria,

Inoltre Michel ha spiegato che un’autonomia europea è nell’interesse anche degli Stati Uniti: «È un bene anche per i nostri alleati: è sempre meglio essere in un’alleanza in cui tutti i partner sono forti e hanno la capacità di agire».

Ma cosa vuol dire concretamente autonomia strategica europea? Un esercito europeo, una posizione divergente dagli Stati Uniti o un insieme generico di valori? Come è accaduto spesso, a domanda diretta Michel non sa dare una risposa precisa, ma anzi pone una domanda agli altri leader europei: «La nostra generazione ha bisogno di un progetto positivo, di un progetto propositivo, di un progetto “per” e non un progetto “contro”. Come possono convergere maggiormente i ventisette Stati europei affinché abbiamo posizioni sempre più comuni in termini di analisi delle diagnosi e in termini di mezzi di azione per difendere i nostri interessi?».

Per interessi, il presidente del Consiglio europeo intende soprattutto quelli economici. L’Unione europea si è posta l’ambizioso obiettivo della neutralità climatica da raggiungere entro il 2050, ma «l’Europa non è un’isola, né un continente diviso: dobbiamo agire a livello internazionale e attivare quella che chiamo diplomazia climatica per incoraggiare altri attori nel mondo ad avere ambizioni simili alle nostre. C’è una ragione molto semplice per questo. Se non facciamo questo sforzo, avremo un problema di equità nelle relazioni economiche e commerciali internazionali». 

Tradotto: l’Ue ha scelto di correre meno per diminuire le emissioni climalteranti, ma ha bisogno che tutto il mondo stia al suo passo per non rimanere indietro e non pagare economicamente da sola il prezzo di salvare il pianeta. «Sarebbe molto problematico fissare standard od obiettivi ambiziosi in un’economia molto globalizzata, consentendo allo stesso tempo ad altri di accedere al nostro mercato interno con prodotti e mezzi di produzione che non soddisfano gli stessi standard», spiega Michel. 

Oltre il clima, è difficile trovare un punto geopolitico in comune tra l’Ungheria guidata dal sovranista Viktor Orbàn e la Francia del presidente liberale francese Emmanuel Macron. O tra il Portogallo del socialista Antonio Costa e la Slovenia del controverso Janez Jansa. E le posizioni dell’Estonia o della Polonia nei confronti della Russia differiscono da quelle della Spagna o della Germania, così come quelle su come cambiare il Patto di stabilità europeo. 

Secondo Michel però esistono dei tratti comuni: come le sanzioni alla Bielorussia per le elezioni truccate da Lukashenko approvate da tutti e 27 i leader europei. «Certo, questo non significa che non ci siano in certi momenti temi così importanti per gli Stati membri da far sì che ci sia una grande tentazione di usarne altri per far avanzare il proprio punto di vista su un determinato tema o quello». Il riferimento è a Cipro che nel settembre 2020 ha minacciato di bloccare le sanzioni contro la Bielorussia come leva per ottenere sanzioni contro la Turchia per l’attività aggressiva di Ankara nel Mediterraneo orientale. 

Secondo molti analisti l’abbandono della regola dell’unanimità potrebbe velocizzare il processo decisionale del Consiglio europeo, costringendo la piccola minoranza dei 27 leader ad adeguarsi al volere della maggioranza senza bloccare con veti e contro veti. Eppure per Michel la regola della maggioranza qualificata potrebbe essere controproducente: «È vero che l’unanimità richiede un grande sforzo politico, molti investimenti, molte energie, ma è una regola che, se e quando viene fatta funzionare, fa unità, quindi forza, quindi influenza e quindi potere. Rinunciarvi significa correre il rischio – che a prima vista può sembrare buon senso – di contribuire a indebolire la costruzione europea».

Viene però da chiedersi allora come si possa velocizzare questa autonomia strategica se da anni sui dossier più importanti il Consiglio europeo sceglie spesso di non decidere per evitare tensioni tra i 27 leader. Come nel caso dell’allargamento a nuovi Stati membri, in particolare gli Stati Balcanici: «Non possiamo tenere questi due soggetti nel frigorifero europeo a Bruxelles e organizzare un vertice ogni due anni per fare dichiarazioni che non si traducano in effetti concreti e tangibili per le popolazioni».

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