La nazione prima della fazioneColin Powell, ritratto intellettuale dell’ultimo vero repubblicano

Generale a quattro stelle e politico cauto e refrattario alle improvvisazioni (nonostante la fialetta all’Onu). Dopo Bush, ha votato due volte Obama abbandonando il suo partito prima ancora della catastrofe Trump

LaPresse

Cosa resta oggi del partito repubblicano che fu, dopo l’opa ostile trumpiana? Di sicuro non può più contare su una figura come Colin Powell, scomparso all’età di 84 anni che incarnava il modello eisenhoweriano di servizio: prima militare poi politico al servizio della «nazione prima che della fazione».

Powell, fa sapere la famiglia, è molto per complicazioni di salute legate al Covid e al mieloma multiplo di cui soffriva. Era da anni affetto dal Parkinson e aveva completato il ciclo di vaccinazione a inizio anno

Colin Powell però aveva da tempo abbandonato il partito repubblicano. Ben prima di Trump, nel 2008, quando annunciò che avrebbe votato per il senatore Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti. Scelta riconfermata quattro anni più tardi, con tanto di sottolineatura fatta registrando degli spot elettorali: «Colin Powell, generale a quattro stelle, repubblicano». Già in queste parole era contenuto parte del suo percorso politico e umano. Figlio di una coppia di immigrati giamaicani ad Harlem, New York, la sua storia personale sembra tratta da un libro di possibilità offerte dal sogno americano.

Dopo aver iniziato a studiare presso il City College of New York, si arruola nel 1958. Qualche anno dopo, nel 1962, arriva in Vietnam, prima come consigliere militare dell’esercito sudvietnamita poi come ufficiale. Nel 1968 la sua unità è coinvolta nel massacro di My Lai, che riconobbe con grande onestà molti anni più tardi, nel 2004, in piena campagna elettorale. Fu lì che realizzò quando una leadership carente potesse danneggiare anche le sorti militari di una guerra come quella del Vietnam, che macchiò a lungo la reputazione degli Stati Uniti. Nel 1972 vinse una White House Fellowship, un programma ideato dall’amministrazione di Lyndon Johnson per avvicinare personale qualificato al governo federale.

In un periodo difficile trasse parte del suo credo politico costituito da un conservatorismo moderato sia in politica interna che estera. Lo sviluppò poi quando entrò nell’entourage del segretario alla Difesa Caspar Weinberger nel 1983, quella che sarebbe poi diventata, anni dopo, la dottrina Powell. Nel 1987, dopo lo scandalo Iran-Contras, diventa consigliere nazionale per la sicurezza nazionale, il primo afroamericano, nel ruolo che fu di Henry Kissinger. Quando diventò capo di stato maggiore, nel 1989, sotto George Bush senior, avrebbe consigliato prima della Guerra del Golfo contro Saddam un approccio cauto, per sopportare eventualmente una guerra di attrito contro quella che era una potenza regionale. In politica estera, invece, un multilateralismo il più largo possibile. La guerra andò meglio del previsto e in certi circoli repubblicani le sue idee, che aveva abbozzato nel 1984 nel discorso scritto per il segretario Weinberger intitolato “L’uso del potere militare”, vennero accantonate. Ma cosa diceva quella che in seguito venne definita “la Dottrina Powell”.

Eccolo riassunto per sommi capi: per dire di sì a un intervento militare servono una capacità di fuoco schiacciante e un consenso molto largo nell’opinione pubblica. Oltreché, naturalmente, un interesse nazionale chiaramente messo in pericolo.

Cosa accadde quindi, quando Powell, nella sua veste di primo segretario di Stato afroamericano, sostenne con entusiasmo mediatico l’intervento in Iraq tanto da arrivare al famigerato discorso alle Nazioni Unite del febbraio 2003 a sostegno dell’intervento contro l’Iraq di Saddam Hussein, accusato di aver, agitando una fialetta di antrace finta, performance che anni dopo avrebbe definito come «una macchia nei suoi lunghi anni di servizio».

Ciò non voleva dire che Powell non fosse d’accordo con una robusta difesa della democrazia a livello internazionale: ma che la base dei volenterosi scelta dal presidente Bush non fosse affatto sufficiente a sostenere quello che si annunciava come uno sforzo bellico ingente.

La sua critica, contrariamente a quanto si disse, fu sul dopoguerra e sugli sforzi di ricostruzione visti come «improvvisati» e assolutamente non adeguati alla costituzione di una società civile irachena che portasse al progresso della nazione. Lo affermò anche in occasione del suo primo endorsement a Barack Obama durante un’intervista alla Cnn: «Ho fatto tutto il possibile per evitare la guerra, ma quando si è trattato di decidere, ho sostenuto il presidente Bush. E non ho mai avuto esitazioni su questo, nemmeno in seguito».

Forse anche per questo suo essere cauto e refrattario alle improvvisazioni da uomo forte che decise sempre di non candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti, nemmeno nel 2000 quando sembrava che il suo profilo di generale politico fosse l’ideale per superare il clintonismo della Terza Via trionfante. 

Non stupisce, quindi, la sua totale ostilità alla presidenza di Trump, che rappresenta tutto il contrario della sua parabola politica: faziosità, improvvisazione e disprezzo delle procedure.

Nella narrazione facilona di Fox News e di altri media trumpiani Powell negli ultimi anni ormai era diventato «un democratico». Se il partito repubblicano però vorrà tornare a essere un’entità politica che ha a cuore gli interessi americani più del presidente deposto di Mar-a-Lago, dovrà recuperare questi principi di integrità e di studio dei problemi, contro il dilettantismo trumpiano prevalente.

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