Biglietti agli amiciGuardare “Ciao, libertini!” per ricordarci quanto ci manca Pier Vittorio Tondelli

Il documentario diretto da Stefano Pistolini è un omaggio a un grande scrittore, ma anche un ritratto commosso di un’epoca di follia e trasgressione da dove è scaturita l’Italia di oggi, anche dal punto di vista letterario

di Celestino Pantaleoni (part.)

C’erano i paninari, il disimpegno, le discoteche, la droga, il divertimento assoluto. C’era anche la nuova cultura, la creatività, la moda. Soprattutto, c’era Pier Vittorio Tondelli. Lo scrittore emiliano visse quegli anni nel profondo, li capì meglio di tutti e li raccontò come nessuno. La sua scrittura nasceva da lì, lungo la Via Emilia fino a Riccione, dove posava il suo sguardo di autore «provinciale, nel senso che veniva dalla provincia», che aveva girato l’Italia inseguendo i centri culturali più frizzanti, la rappresentava e la superava.

È il ritratto, approfondito e garbato, che appare in “Ciao, Libertini! Gi anni ’80 secondo Pier Vittorio Tondelli”, documentario di Stefano Pistolini realizzato con Sky Arte e Dallarouche in occasione dei 30 anni dalla morte dello scrittore, cui ha collaborato anche Simonetta Sciandivasci. Un omaggio, che lo ricorda riascoltando la sua voce, riproponendo le sue interviste, intervistando le persone che hanno condiviso con lui quell’epoca e quei sogni (e quella disperazione).

C’è Mario Fortunato («mi chiamava sempre “Mariolino”»), con cui condivideva le serate, le scoperte, la vita notturna nelle discoteche, i viaggi, l’amore per la differenza. A unirli era anche il senso di differenza dovuto all’omosessualità. Ma il loro rapporto era anche scherzoso: «Mi divertivo a usare toni sadici con lui. Quando mi diceva “Sarò ricordato come un minore padano”, gli rispondevo: “No, Pier: tu non sarai ricordato affatto”».

C’è Giovanni Lindo Ferretti, che lesse “Altri libertini” subito dopo averlo comprato, sulla panchina di fronte alla libreria. «Nessuno aveva mai parlato dei giovani emiliani come Tondelli». In seguito si conobbero, si frequentarono, diventarono amici (anche se molto diversi) e collaborarono. C’è Paolo Landi, ma anche Luigi Ontani, Elisabetta Rasy, Paolo Landi, Enrico Palandri, Antonio Spadaro. A incorniciare i passaggi Walter Veltroni, con Vasco Brondi come continuatore ideale.

Tra nebbia e infinito, voglia di divertimento (quello che non si era «mai vissuto prima e non si sarebbe mai più vissuto dopo», sostiene Giovanni Lindo Ferretti), provocazioni culturali, Tondelli si sposta tra le città più vibranti di quegli anni: prima Bologna, poi gli anni fiorentini, dove si appassionava a tutto, moda compresa (prima che questa traslocasse a Milano), poi ancora a Milano. Tondelli, alto e gentile, aperto ed elegante, con passioni estetiche borghesi, girava per quell’Italia che, dal Marabù della via Emilia fino ai teatri di Firenze, viveva gli anni più capricciosi, individualisti e sfrenati. Ma anche fragili e spensierati. Era una festa pazza dove «Carpi è la periferia di Berlino», dove i riverberi e le interferenze sancivano – questo almeno pensava Tondelli in “Un weekend postmoderno” – il superamento del postmoderno stesso. Erano, a suo avviso, gli anni di «un nuovo ellenismo» con replicanti galattici e una fauna che risponde «in sublime souplesse». Un mondo in cui arriva la fine «e ho tutto da mettermi».

Il documentario segue le sue tracce, torna nella nebbia emiliana, cammina per Bologna e la riviera romagnola. È un regalo e al tempo stesso un’indagine, un ritratto d’artista a più voci, un florilegio di contributi che dimostrano insieme la grandezza e l’umanità di uno scrittore unico. Anche il ricordo della fine, provocata dall’Hiv, viene fatto in punta di piedi, a distanza, con rispetto commosso. Quello che rimane è un duplice viaggio nella storia: quella dello scrittore e quella dell’Italia di 40 anni fa, colpita da sorprese e furori, che Tondelli osservava, interrogava, capiva.

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