Musica da sconfitti: l’eterna attualità dei CCCP

Musica da sconfitti: l'eterna attualità dei CCCP

Provate a prendere un regionale da Milano a Bologna in una sera d’inverno, con il freddo cane e il buio alle cinque. Il paesaggio è fatto di campi, campi a perdita d’occhio, qualche casale diroccato, depositi di rottami ferrosi. Ogni tanto una fabbrica o un silo.

Ho passato molte serate nei paesini che stanno qualche chilometro più a nord della ferrovia, nella parte finale del viaggio. Ero una specie di roadie di un gruppo di amici che suonavano nei locali più scalcagnati della Pianura Padana e, anche se la nostra città – Mantova – non mancava di locali scalcagnati, bisognava spesso spostarsi verso sud, in provincia di Modena o di Reggio o perfino di Bologna. Da quelle parti c’era molta più musica.

Negli anni Ottanta, quelle zone erano il regno del PCI al governo, le zone della Democrazia Cristiana al sei per cento. Erano anche le zone di un disagio di provincia, fatto di matti e di eroina, quello descritto da Pier Vittorio Tondelli in Altri libertini. E anche se erano passati molti anni, si sentiva ancora nell’aria – e si vedeva nel pubblico dei nostri concerti – una certa vena di follia che, non me ne vogliano gli emiliani, era molto più accentuato rispetto a qualche chilometro più a nord.

Torniamo sul regionale e mettiamo insieme quel paesaggio di nebbia e di casali in rovina, la musica e tutto il resto, e la migliore colonna sonora che ne viene fuori è questa, composta intorno al 1983 da un gruppo che si autodefiniva «punk filosovietico»:

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Il basso è monotono come la pianura. La canzone si apre con un grido femminile – prima distorto, poi distinguibile. La sensazione che trasmette è dura, pesante, ripetitiva.

La rimozione del brutto e del faticoso dalle nostre esperienze estetiche quotidiane è evidente. L’industria culturale deve produrre rappresentazioni che siano il più possibile edulcorate per piacere alla platea più vasta raggiungibile – mondiale, almeno in potenza. Così se una storia di disperazione umana come Her vuole arrivare a essere candidata agli Oscar, i suoi colori pastello e le ambientazioni ultramoderne devono restare confortevoli e piacevoli all’occhio. I gruppi musicali che arrivano alla ribalta sono così lisciati dalla produzione delle major che basta una ripetizione ossessiva sulle radio commerciali per farle piacere. E in effetti, in quanto prodotti industriali, sono oggetti assolutamente gradevoli – e innocui.

La conseguenza di questa rimozione è una distanza siderale tra la realtà e la sua rappresentazione artistica. Alla generazione cresciuta negli anni Novanta, cresciuta nell’ottimismo della società dei consumi trionfante e nell’illusione della fine della storia, l’estetica dominante continua a proporre prodotti culturali fatti apposta per non scontentare nessuno. In altre parole, lo spazio di critica dell’esistente che le opere d’arte hanno mantenuto fino a tempi recenti è nascosto nei casi migliori, ristretto fino all’annullamento nella grande maggioranza. Di fronte a questo, la stessa generazione si trova di fronte la realtà quotidiana fatta di precarietà lavorativa e incertezza esistenziale.

In definitiva, fatta di sconfitta. Cantavano i CCCP in Morire: «Non so dei vostri buoni propositi perchè non mi riguardano / esiste una sconfitta pari al venire corroso / che non ho scelto io / ma è dell’epoca in cui vivo». La sconfitta, allora come oggi, non è per tutti, perché ci sarà pure chi riuscirà a sfangarla e a raggiungere benessere e successo – e a loro l’ideologia dominante, alimentata dalle storie del self-made man che sono tuttora la spina dorsale di ogni sceneggiatura hollywoodiana da e darà la palma del vincitore – ma per la vastissima maggioranza il futuro sarà, a meno di rivolgimenti economici che al momento non sono all’orizzonte, la realizzazione della prima generazione da decenni che avrà un tenore di vita inferiore a quello dei propri genitori.

E se c’è una colonna sonora che può riavvicinare la realtà alla rappresentazione, sono i quattro album e poco più di un gruppo che ha le sue origini nella bassa reggiana nei primi anni Ottanta. Se nell’Italia di allora dichiararsi filosovietici poteva essere interpretato come una pura provocazione – prendere le parti di quel mondo che, nel blocco occidentale, era il nemico – oggi la potenza di quel gesto è raddoppiata dal fatto che il comunismo è definitivamente scomparso, e l’ideologia che pretendeva di cambiare l’uomo ha dimostrato, nei fatti, di non funzionare. Ma d’altra parte lo riconoscevano anche loro: «L’ideologia [comunista] ha fatto il suo tempo, anzi, […] ha dimostrato un difetto congenito: quello di perdere sempre».

Quindi torniamo ai nostri «punk filosovietici». Nel 1984, trent’anni fa, uscì Ortodossia, il primo EP del gruppo, che oggi viene ripubblicato in edizione speciale limitata. Altri quattro album in studio sarebbero usciti di lì al 1990, ma c’è molto di più di quelli, come sempre: c’è un lungo passato con il fatidico incontro tra Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni a Berlino Ovest nei primissimi anni Ottanta, Ferretti già ventottenne. Due ragazzi di Reggio Emilia, cresciuti a pochi chilometri di distanza, che si incontrano a Berlino dopo aver frequentato per anni gli stessi posti. C’era un presente fatto di concerti nei locali della scena punk emiliana, che poi, con l’arrivo di Fatur e Annarella, due attori sul palco, sarebbero diventate delle performance, con intermezzi recitati, scenette grevi, danze. Ci sarebbe stato, dopo pochi anni, un futuro fatto di cambi di formazione e cambi di nome – prima CSI e poi PGR – e poi la famosa “conversione” – in realtà più un ritorno – di Ferretti al cattolicesimo tradizionalista e arcaico dei suoi nonni, come lui stesso la descrive.

Ma tutto è già presente, in una materia più grezza e potente, nei CCCP. Ci si possono riconoscere quattro filoni: quello politico, quello orientale, quello psichiatrico e quello intimista. Nel primo c’è la rivisitazione dell’inno sovietico di A Ja Ljubljiu SSSR, ma anche un pezzo (Manifesto) con tre versi che dicono «vali di più di un aumento economico / meriti di più di un posto garantito / che non avrai». Altrove ci sono delle parole che vorrei mettere come sottofondo di un discorso di Matteo Renzi, per vedere l’effetto che fa: «poi mi vuoi fedele a te / all’avanguardia alle novità / adorante il progresso / le mode la modernità / mi sono sviluppato già abbastanza / non ne posso più»:

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Giovanni Lindo Ferretti ha lavorato cinque anni in un ospedale psichiatrico, prima dei CCCP. I pezzi del filone che chiameremo “psichiatrico”, comeEmilia paranoica, suonano come una messa in musica dell’attacco indimenticabile diUrlo di Allen Ginsberg, una delle poesie più famose della beat generation in cui erano immersi i CCCP quanto il già citato Tondelli e tanta parte dell’ambiente artistico italiano di allora: «Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla pazzia / morte di fame isteriche nude».

La malattia mentale, un’altra grande rimozione dei nostri tempi. E a proposito di dimenticati e rimossi, i versi forse più famosi dei CCCP sono in un pezzo che parla di una quota crescente della nostra società e che nascondiamo dietro l’asettica sigla NEET: «Non studio non lavoro non guardo la TV / non vado al cinema non faccio sport».

Le canzoni “islamiche” nascono, per la stessa ammissione di Ferretti, dall’esperienza berlinese, e più precisamente di Kreuzberg, il quartiere che allora come oggi è abitato da una grande comunità turca. Era l’incontro con il diverso dei ragazzi di un’Italia che non conosceva ancora l’immigrazione dall’estero; e dall’altra parte c’era un Islam non ancora distorto dall’11 settembre e da tutto quello che si è portato dietro. I CCCP suonavano ogni tanto una cover di un pezzo che si chiama Kebabträume, “sogni di kebab” del gruppo tedesco di musica elettronica DAF.

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Difficile che i CCCP restino di sottofondo: i proclami di Ferretti reclamano attenzione, e possono inevitabilmente risultare fastidiosi. Nel filone “intimista”, però, si può trovare anche qualche pezzo all’apparenza più immediato. Nel primo disco – quello che ha il titolo chilometrico Affinità e divergenze tra il compagno Togliatti e noi. Del raggiungimento della maggiore età – la terza traccia parla d’amore. Come lo fa, però, è un altro paio di maniche: è pornografica senza essere volgare, malata come i fumetti di Pazienza.

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Anche uno dei più grandi successi dei CCCP parla d’amore: è una mosca bianca nella loro discografia, forse l’unica delicata. È anche una delle più belle canzoni d’amore della musica italiana.

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I CCCP sono duri, ostici, ripetitivi, ossessivi, pesanti. Sono contraddittori. «Tante volte anch’io fraintendo i CCCP», diceva Massimo Zamboni in Tempi moderni, il documentario sul gruppo di Luca Gasparini girato nel 1989. Non sono simpatici, tanto più dopo le prese di posizione successive di Ferretti (le lettere al Foglio contro la fecondazione artificiale, le feste di Atreju e tutto il resto). Però oggi la loro musica coglie una realtà, o almeno un aspetto della realtà, che tutto il resto cerca di rimuovere. Scrivevano in un loro volantino: «Siamo arrivati tardi o forse troppo presto».

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