Emissioni d’OrienteCosa sappiamo delle intenzioni della Cina sul clima

il primo Paese per emissioni di gas serra ha fatto dei passi in avanti, ma è ancora troppo poco per raggiungere l’obiettivo della neutralità carbonica. E senza Pechino, la Cop26 in corso a Glasgow rischia di non ottenere i risultati necessari a cambiare rotta

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La Cina è un paese fondamentale per la lotta al cambiamento climatico. Lo è per il suo peso economico e politico, ma soprattutto per il ruolo diretto che ha nell’emissione di gas serra. La Cina, infatti, è il primo paese per emissioni di gas serra: circa il doppio di quelle emesse dal secondo in classifica, gli Stati Uniti. Per questo, senza la volontà di Pechino di ridurre le emissioni inquinanti, la comunità internazionale non può fare nulla per fermare il cambiamento climatico.

Già nel 2020 Xi Jinping aveva annunciato che la strategia cinese sarebbe stata quella di raggiungere il picco di emissioni entro il 2030 e poi diminuirle fino a raggiungere la neutralità carbonica (cioè il raggiungimento di un equilibrio tra la CO2 emessa e quella che il pianeta può assorbire) entro il 2060. La posizione di Pechino, senza sostanziali modifiche, è stata confermata alla Cop26 in corso a Glasgow – l’importante summit annuale promosso dalle Nazioni Unite sull’ambiente e i cambiamenti climatici. Tutto bene quindi? Non proprio.

Innanzitutto scienziati ed esperti di clima sono preoccupati perché se per tutti i paesi del mondo ora l’obiettivo è quello di ridurre le emissioni inquinanti per la Cina, cioè il paese che emette di più, la sfida è particolarmente difficile. I motivi sono due: il primo è che la Cina dipende largamente dai combustibili fossili: il 56.8% dell’energia cinese viene dal carbone, contro il 23,7% della Germania e il 9,3% dell’Italia, giusto per fare due esempi. Il secondo motivo è che per via della ripresa improvvisa dei consumi degli scorsi mesi l’importanza dell’uso del carbone, in Cina, è cresciuta ulteriormente.

Alcuni progressi, la Cina, li ha fatti. Si sono fatti sforzi per inasprire le restrizioni sulle emissioni di carbonio: nel polo siderurgico della città di Tangshan, per esempio, su richiesta del governo si è appositamente ridotta la produzione. L’intervento statale su singolo impianto industriale potrebbe sembrare poca cosa, se non fosse che le acciaierie di Tangshan producono da sole più acciaio di quanto se ne produce in India e Giappone messi insieme. O di Stati Uniti, Germania e Brasile combinati. Altro dato per farsi un’idea di quanto sia importante e diretto l’intervento del governo di Pechino sulle controllate statali: la sola China Baowu (grande azienda che produce acciaio, appunto) emette più CO2 del Pakistan. Sinopec Group, prodotti petroliferi, più del Canada.

Il punto però, com’è ovvio che sia, è se e quanto Pechino vorrà intervenire per ridurre le emissioni. Anche perché, stando a quanto afferma la comunità scientifica, il 2060 è decisamente troppo tardi per raggiungere la neutralità carbonica. Anche Climate Action Tracker, un gruppo di scienziati ed esperti in ambito climatico, ha definito «altamente insufficienti» gli sforzi fatti finora da Pechino. 

Il presidente cinese negli scorsi giorni, pur non essendo presente al summit di Glasgow, ha chiesto «cooperazione internazionale per ridurre le emissioni di carbonio», ma ha anche aggiunto che «i diversi paesi dovrebbero svolgere ruoli diversi in tale riduzione». Non è una frase buttata lì per caso: Xi Jinping si riferisce al fatto che gli stati occidentali, in passato, hanno inquinato di più e che quell’inquinamento ha portato ricchezza. Che è vero, ovviamente, ma non toglie nulla all’urgenza del problema che tutto il pianeta, Asia compresa, sta vivendo in questo momento. Anche perché, se seguissimo questo ragionamento del diritto di inquinare da parte dei paesi meno industrializzati, bisognerebbe tutti, immediatamente, lasciare inquinare solo gli stati africani e noi altri – asiatici, americani ed europei –  portare a zero le nostre emissioni a costo di lasciare le nostre case al buio.  

Tiriamo le somme. Le domande da porsi per poter capire davvero la strategia ambientale di Pechino sembrano essere soprattutto due. La prima: quanto è credibile l’impegno cinese sulla riduzione delle emissioni? E quanto la mancanza di trasparenza tipica di un regime come quello cinese rende possibile un monitoraggio affidabile? 

Abbiamo girato entrambi i quesiti a Giulia Pompili, giornalista del Foglio – dove si occupa proprio di politica asiatica – e autrice di “Sotto lo stesso cielo” (Mondadori): «Sulla credibilità dell’impegno dei paesi a ridurre le emissioni secondo un calendario condiviso abbiamo diversi dubbi che riguardano altrettanti paesi, e non solo la Cina: pensiamo per esempio all‘India di Narendra Modi, che ha mandato un messaggio più o meno simile a quello cinese, ovvero: lo faremo, ma con i nostri tempi. Certo è che mentre da un lato abbiamo una democrazia complicata e difficilissima da gestire, molto concentrata sugli affari interni, come quella indiana, dall’altro lato abbiamo un paese monopartitico con un leader, Xi Jinping, che si avvia verso la leadership a vita e che per raggiungere l’agognato sorpasso economico dell’America farebbe di tutto. Ora, bisogna dire che quello green è un tema molto sentito dall’opinione pubblica cinese, lo si vede dalle discussioni online e dai temi affrontati dai media cinesi, ma soprattutto lo si vede dall’attenzione che vi ripone il mondo del business cinese. Pechino lo sa, e sta facendo progressi in tal senso, ma con i suoi metodi: niente può venire prima dell’interesse nazionale e della tenuta del Partito.»

Insomma la volontà c’è, ma la transizione energetica cinese va capita guardando alla gerarchia di interessi di Pechino. 

Oltre alle volontà cinesi, però, è sempre più evidente che il successo della conversione verde globale dipende dai rapporti tra le due superpotenze, Cina e Stati Uniti, che sono contrapposte su vari fronti. Si contendono la leadership mondiale in campo economico e dell’industria tecnologica, per fare solo un esempio, ma si scontrano duramente anche in zone geografiche come Taiwan.

E qui sorge la seconda domanda, che forse è la più importante per capire le possibilità di successo della transizione verde cinese: quanto le tensioni tra Pechino e Stati Uniti rischiano di incidere sulla collaborazione globale utile per far fronte alla sfida climatica? Chiediamo di nuovo a Pompili: «Quando Joe Biden è arrivato alla Casa Bianca, nessuno sapeva come si sarebbe comportato con la Cina. Era l’aspettò più estetico della tenuta di Trump, ma di certo non si poteva tornare indietro, a un atteggiamento di amicizia. E quindi si è optato per un “dialogo selettivo”, cioè si compete su tutto ma ci si parla solo su questioni di interesse globale: il clima, appunto.

Solo che Pechino lo sa: sa che ogni discussione sul clima, senza la sua approvazione, vuol dire una discussione tra pochi, insomma inutile. E quindi sfrutta questa necessità di ingaggiare un dialogo a suo favore, e pone delle condizioni. Per esempio, una delle condizioni per parlare di clima con la Cina, per i paesi occidentali, era smettere di parlare di Hong Kong, Taiwan, Xinjiang. Lo hanno detto tutti i funzionari del ministero degli Esteri a praticamente tutti i rappresentanti stranieri. Dunque, il dilemma a cui ci inchioda Pechino, con una straordinaria capacità tattica: parliamo di clima o parliamo di diritti umani? Elettoralmente, ma anche filosoficamente, è un problema gigantesco».

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