Qual è il luogo dove un nostro connazionale in arrivo dall’Ottocento con una macchina del tempo si troverebbe meno spaesato? Probabilmente una scuola: la scuola di oggi, inteso come edificio, è identica a quella di due secoli fa; anche quelle di nuova costruzione continuano a essere pensate, disegnate e costruite con quella pianta lì, immutabile: anche l’architettura non sfugge alla cronica difficoltà della scuola italiana di ripensarsi nella contemporaneità; al massimo, ma nemmeno sempre, con qualche concessione all’innovazione tecnologica, peraltro più formale che sostanziale.
Ho pensato a questo leggendo, su Repubblica del 17 novembre, una lettera di un gruppo di docenti, studenti e genitori del Liceo Boggio Lera di Catania, il cui tetto è crollato nei giorni scorsi, per fortuna senza vittime. «Si tratta di un edificio settecentesco, patrimonio dell’Unesco, che in tre secoli ha ospitato un monastero, un convitto femminile e dal 1967 questo liceo così importante per la città» scrivono, chiedendo due cose: perché l’edificio «non è stato messo in sicurezza attraverso una costante manutenzione» e se sia giusto costruire nuovi edifici piuttosto che «rammendare quelli già esistenti». Sono due domande importanti e prendo spunto da quella lettera per fare alcune considerazioni che provano a rispondere almeno in parte. Lo faccio volutamente senza fare nessuna verifica specifica su quali interventi siano stati fatti e quando per quello specifico edificio. Non voglio infatti proporre una lettura tecnica, ma politica, quindi generale.
Ha infatti ragione Francesco Merlo quando, nel rispondere alla lettera, fa notare che se fosse crollato il tetto del Mamiani di Roma, del Berchet di Milano, del Galvani di Bologna o del D’Azeglio di Torino, altre sarebbero state le reazioni del mondo della politica o – aggiungo io – della stampa nazionale. Se non altro perché il Mamiani, il Berchet, il Galvani e il D’Azeglio sono frequentati dai figli di quei politici o giornalisti che si sarebbero dati da fare per mettere sotto i riflettori la scuola dei propri rampolli. Ha ragione, quindi, l’attenzione sarebbe stata diversa, ma non la risposta alle due domande poste nella lettera dei rappresentanti della comunità scolastica del Boggio Lera.
Cosa hanno in comune i licei che ha citato Merlo e quello catanese? Innanzi tutto il fatto di essere licei (quelli elencati da Merlo sono tutti licei classici, come capita sovente per le scuole citate sui giornali italiani), ma anche il fatto di essere tutti ubicati in sedi storiche del centro storico delle loro città. Il Galvani è ospitato in un edificio del ’500, il Mamiani e il Berchet in palazzi costruiti all’inizio del secolo scorso. È questo uno dei punti più dimenticati quando si ragiona di edilizia scolastica: i nostri edifici sono spesso vetusti, proprio perché sono collocati nei centri storici delle nostre città e – in particolare per quel che riguarda i licei – spessissimo in edifici quasi mai pensati per ospitare delle scuole, in quanto convertiti a quel fine più per il prestigio della sede che per la loro “destinazione d’uso”.
La crème, i figli della borghesia, la futura classe dirigente, secondo l’immortale impostazione gentiliana, è bene che vadano a scuola in luoghi eleganti, prestigiosi e dal profondo valore storico, anche a costo di sacrificare la funzionalità e – scopriremo un secolo o due dopo – la sicurezza. Che un palazzo o un ex convento non siano spazi adeguati per ospitare una scuola di questo secolo immagino sia evidente a chiunque non sia affetto da nostalgismo cronico: si pensi alla inadeguatezza degli spazi destinati ad aule, palestre e laboratori, oppure a quella degli spazi comuni e degli impianti o alla irrimediabile assenza di aree verdi degne di questa definizione.
In sintesi, sto sostenendo che i licei italiani sono spesso ospitati in edifici vecchi, difficili da manutenere (in molti casi anche per i vincoli ai quali sono sottoposti proprio in ragione del loro prestigio e valore storico) e che non sono stati costruiti per ospitare delle scuole. Anche gli edifici costruiti a partire dalla seconda metà del secolo scorso per ospitare delle scuole, non possono che rispecchiare l’organizzazione della scuola del secolo scorso: lunghi corridoi sui quali si affacciano aule spesso troppo piccole (fino agli anni novanta andava alle superiori meno del 70% dei quattordicenni, oggi sono la quasi totalità), laboratori inadeguati, aule professori inadeguate, accessibilità difficoltosa se non impossibile per gli studenti con disabilità, per tacere del rispetto delle norme antisismiche o di sicurezza.
Eccola quindi la risposta alle due domande che ci arrivano da Catania:
1) la costante manutenzione di edifici come quello che ospita la loro scuola è costosa e di dubbia efficacia, ed è anche impedita o fortemente limitata dalle varie Soprintendenze (nel caso specifico si parla addirittura di un edificio patrimonio dell’Unesco)
2) è consigliabile procedere sempre con la realizzazione di nuovi edifici: per le inadeguatezze che ho provato a riassumere in questo articolo, ma anche per ragioni connesse alla necessità sempre più evidente (almeno alla comunità scientifica che si occupa di queste tematiche) di fare scuola in ambienti di apprendimento più adeguati all’innovazione didattica e pedagogica della quale abbiamo bisogno se vogliamo una scuola capace di dare risposte e futuro ai nostri studenti (per un approfondimento si vedano ad esempio i contributi di Beate Weyland e di Daniele Barca e Francesco Profumo nel volume Liberare la scuola, edito dal Mulino).
Ovviamente costruire nuovi edifici nei centri storici delle nostre città è molto difficile se non impossibile, ma è arrivato il momento di chiedersi se è davvero così importante per i nostri studenti continuare ad andare a scuola in luoghi certamente bellissimi, ma anche poco sicuri e non adatti a ospitare una scuola del XXI° Secolo.