L’ulteriore spostamento a destra di Matteo Salvini può rappresentare un elemento di tensione nella eterogenea maggioranza di governo. Se a questo appaiamo l’intransigenza identitaria e isolazionista di Enrico Letta il problema raddoppia. E se il governo di Mario Draghi fosse una fune, ecco che verrebbe tirata simultaneamente dalle due estremità opposte, con la conseguenza che la fune diverrebbe un filo sottile sul quale il premier si troverebbe pericolosamente a camminare.
Pare come se ci si stesse avvicinando a una scadenza elettorale, quando i partiti politicamente maggiori radicalizzano le loro posizioni: ed ecco dunque Salvini “melonizzarsi” mediante l’intesa con Mateusz Morawiecki e Viktor Orbán (anche per sottrarre armi a Giorgia) e Letta lanciarsi in una battaglia perdente e infatti perduta come quella della legge Zan, incurante e forse speranzoso di rompere i rapporti con Matteo Renzi (al quale peraltro tutto il gruppo dirigente ha negato solidarietà per l’agguato del Fatto con la pubblicazione dell’estratto conto personale) pur di veder rifulgere la purezza del suo Pd. Il quale Pd, o meglio qualche suo esponente, escogita macchinazioni per portare Nicola Zingaretti in un governo Conte e simili amenità, ma almeno ufficialmente si tiene alla larga dai nodi più politici.
In qualche caso il protagonismo dei partiti si fa negativamente sentire, come nel caso della Lega nell’ostacolare la concorrenza nel settore delle concessioni balneari (e ne vedremo delle belle in occasione dell’analoga battaglia antiliberale dei tassisti); mentre si scorge un certo attivismo del Pd sulla Rai, naturalmente in coincidenza con le nomine dei vertici giornalistici: ed ecco il retroscena del Corriere sui colloqui Bettini-Conte-Fuortes durante la festa di compleanno del primo.
E dulcis in fundo, come al solito, tutto è pronto per l’annuale mercimonio sulla legge di bilancio, quando si tratterà di soddisfare appetiti di questo e di quello. Non è dunque esattamente il clima migliore per affrontare due partite una più importante dell’altra: la nuova fase della guerra al Covid davanti alla quarta ondata e la predisposizione della campagna per il booster, cioè il richiamo, mentre già si ode un certo sciabolare sul rinnovo dello stato d’emergenza; e poi l’altra questione cruciale, l’elezione del presidente della Repubblica. Due appuntamenti sui quali occorrerebbe il massimo di unità nazionale e che invece paiono già due campi di battaglia.
Sul primo aspetto, quella della terza dose tendenzialmente per tutti, si può ancora contare sulla responsabilità del Pd e di Forza Italia (il M5s, su questa e su altre questioni è del tutto imponderabile, staremmo per dire ininfluente), sulla tenuta di credibilità degli scienziati, soprattutto sull’intelligenza della stragrande maggioranza del popolo italiano e infine, ma non ultimo, sulla forza persuasiva del presidente del Consiglio. La Lega alla fine si accoderà. Speriamo che nessun partito voglia strumentalizzare o peggio aizzare quel nervosismo degli italiani che gonfia le vele dei No vax: non ne saremmo sicuri, perché lo spostamento a destra della Lega entra in sintonia con i sentimenti peggiori del Paese – da Trieste in giù – ma è sperabile che il duo Salvini-Meloni non faccia colpi di testa e non metta i bastoni tra le ruote.
Sulla vicenda del Quirinale, citando Goffredo Bettini, effettivamente «non ci si capisce niente», complice anche il fatto che nei partiti regna l’ambiguità più totale. Salvini vedrebbe bene Draghi al Colle ma si mette a disposizione di Silvio Berlusconi, mentre Goffredo Bettini, Giuseppe Conte e Giancarlo Giorgetti sono anche loro per Draghi capo dello Stato con una sua controfigura a guidare il governo. Questo solo per dire quanta confusione ci sia sotto il cielo, almeno sotto il cielo dei politici di professione, pasticcioni in massimo grado.
Le cose serie le stanno invece affermando altri. Come il giurista Francesco Clementi che in un’intervista a Repubblica, tra l’altro, ha fissato due punti che dovrebbero essere tenuti ben fermi: che il capo dello Stato «è un garante e non un governante» – e questo liquida la tesi giorgettiana del semipresidenzalismo de facto e le ipotesi di un governo Franco – e che al Colle «serve un inquilino per proteggere Draghi, come ha fatto finora Mattarella», il che significa un presidente che non sia politicamente più debole di Draghi.
Se i partiti maggiori si trovassero già dalle prossime settimane su questi due punti fermi, il lavoro successivo ne gioverebbe. Ma per il momento ogni forza politica pensa ai fatti suoi, lavorando dunque contro gli interessi del Paese. Si diano una regolata, a destra e a sinistra.