Stessa spiaggia, stesso maleLe concessioni balneari e i possibili rimedi alla democrazia della rendita

Ambulanti, magistrati, taxisti, notai o insegnanti, pensionandi o dipendenti Alitalia. Tutte queste categorie difendono da anni lo status quo, senza alcuna visione prospettica o senso di responsabilità verso chi ha pagato i costi diretti e indiretti della mancata concorrenzza, come cittadini, contribuenti e operatori economici

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Può apparire paradossale che l’esecutivo sia riuscito, con un tratto di penna, ad abolire quota 100, vincendo la resistenza di Lega, sindacati e destre e sinistre sociali assortite e invece abbia dovuto arrendersi di fronte alle resistenze dei concessionari balneari, perpetuando una condizione di illegalità ripetutamente contestata dalla Commissione europea e certificata praticamente da tutte le giurisdizioni italiane – dal Tar alla Corte costituzionale – e dalla Corte di Giustizia dell’Ue.

Addossare le responsabilità di questa ennesima battuta d’arresto al capo dell’esecutivo sarebbe puerile. Anzi, questa vicenda offre due lezioni preziose su come e sul perché la democrazia italiana sia questa combinazione di immobilismo e di precarietà, di stato di anomalia e stato di emergenza e su quali, realisticamente, possano essere i parziali rimedi alla sua patologica inefficienza. La prima lezione riguarda il corpo della nostra democrazia, la seconda, per così dire, la sua anima.

Partiamo dal corpo. Malgrado le più diverse soluzioni elettorali e istituzionali sperimentate sul piano nazionale e locale, all’inseguimento di una sempre più astratta stabilità di governo, il sistema politico italiano è rimasto ontologicamente particolaristico. Insomma: governa, stabilmente o instabilmente, così. Chi ha sperato, come il sottoscritto, che un sistema elettorale e istituzionale diverso – maggioritario e direttamente o indirettamente presidenzializzato – potesse produrre o incentivare una riforma della nostra democrazia deve ammettere un crescente senso di delusione e di fallimento.

Non era il proporzionale a segmentare la rappresentanza degli interessi e a fare delle istituzioni il suq di un mercimonio di immunità e di benefici. Non era solo la partitocrazia primo repubblicana a fare del corporativismo democratico, erede di quello fascista, il principio della costituzione politica materiale dell’Italia. Anche nell’Italia delle coalizioni tutti frutti, delle leadership personali, del bipolarismo bellico e dell’o di qua o di là si è registrata una generale e spesso unanimistica convergenza verso il modello dell’un po’ a te e un po’ a me, del consociativismo di scambio e della difesa dello specifico italiano, che in genere è tanto più specifico quanto più è anomalo, tanto più rivendicato come diritto, quanto più somigliante all’abuso.

E passiamo al problema dell’anima politica della nazione. In tutte le democrazie, gli interessi concentrati e rappresentati, anche se minoritari, tendono a soverchiare quelli diffusi e disorganizzati. Come (a tutti i livelli) occorre difendere il capitalismo dai capitalisti e dalle loro istanze anticoncorrenziali, così occorre difendere il welfare dall’appropriazione indebita di alcuni bisognosi. Su tutte le democrazie, incombe, insomma, il rischio della cattura della decisione pubblica da parte di stakeholder influenti.

Però nella democrazia italiana questi pericoli impliciti nel funzionamento del circuito del consenso non sono mai stati, di fatto, considerati come problemi, bensì come veri e propri principi costituzionali, a misura della legittimità e del rango politico della categoria o della consorteria impegnata a difendere i propri interessi e il proprio potere. Poco importa che si sia trattato di ambulanti o magistrati, taxisti o notai, balneari o giornalisti, insegnanti, pensionandi o dipendenti Alitalia.

Importa che in tutti questi casi a prevalere sia stato il principio della democrazia della rendita e del fermo immagine, senza alcuna visione prospettica e senza nessuna responsabilità verso quelli che non si sedevano al tavolo della negoziazione, ma ne avrebbero comunque pagato i costi diretti e indiretti, come cittadini, contribuenti e operatori economici. Infatti, non casualmente, le prime vittime di questa trappola sono stati i giovani e i primi beneficiari le classi di età più rappresentate nel corpo elettorale. Il classismo generazionale e il corporativismo economico sono sempre state due facce della stessa medaglia, dalla metà degli anni ’70 in poi.

Parlare dunque con gli attuali titolari delle concessioni demaniali marittime come se questi rappresentassero gli interessi del settore o quelli dell’Italia – cioè quelli della crescita del comparto turistico con i relativi e maggiorati introiti per l’erario – è un esercizio di ignobile ipocrisia, a cui però praticamente nessun partito si sottrae. È del tutto evidente che, in democrazia, pensare di uscire gradualmente da questi paradossi rimanendo interamente in questa logica è, come minimo, un wishful thinking.

Il vantaggio di queste rendite nascoste in follie regolatorie, costruite su misura per gli attuali rentier, è inoltre assai meno scalfibile dei privilegi legati a elargizioni pubbliche dirette. Mentre i costi di quota 100 si vedono nel bilancio pubblico, e a un certo punto mancano i soldi per pagarli, quelli legati al fatto che la gran parte dei concessionari di diritti balneari paghino canoni inferiori agli affitti di immobili turistici sono meno difficili da difendere, perché meno percepibili in una politica dominata dal percepito.

Ragionare sui rimedi a questa situazione vuol dire ragionare sull’ubi consistam morale di un sistema politico disperatamente o volgarmente affaristico, in un senso ben più grave e distruttivo di quello della mera corruzione privata. Ma soprattutto significa togliersi dalla testa l’illusione che basti un Draghi a fare primavera, se il 90 o 95% dei partiti sono profondamente anti-draghiani e destinati a perpetuare il lungo inverno italiano.

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