Nessun regalo è soltanto un regalo. Dietro al gesto, spontaneo o deciso dalla tradizione, di fare un dono a qualcuno, c’è sempre un messaggio, una comunicazione e, in generale, una dimostrazione di rapporti di potere da stabilire o da riaffermare. Come ricorda questo simpatico articolo dell’Economist, non serve citare il saggio di Marcel Mauss per sapere che il marito poco attento regalerà gioielli costosi per farsi perdonare la distanza, o che il genitore con ambizioni per i figli li riempirà di libri e giocattoli educativi (che spesso finiranno nel dimenticatoio).
Lo stesso vale per i regali che si scambiano i Paesi, o i governi, o i capi di Stato. Sono, in questo caso, messaggi ufficiali che servono a certificare un rapporto di amicizia o collaborazione, oppure ad aprire nuove porte diplomatiche. L’albero di Natale che ogni anno illumina Trafalgar Square, per esempio, è un regalo della Norvegia. Serve a ringraziare e commemorare l’aiuto inglese durante la Seconda Guerra Mondiale, anche solo perché ha fornito asilo al re Haakon VII. È un simbolo, dicono, «della comune lotta contro il totalitarismo». Un ricordo che però è sfuggito a molti londinesi, visto che nel 2019 l’albero è stato criticato per il suo aspetto, giudicato troppo modesto. A nulla sono valse le scuse del segretario di Stato di Oslo: in Inghilterra lo hanno preso come una punizione per la Brexit (e pazienza se la Norvegia non fa parte dell’Unione Europea).
In questo senso, il più celebre regalo-punizione è quello dei Greci nei confronti dei Troiani, il celebre cavallo di Troia. È un episodio che affonda nella mitologia, sul cui significato originario si continua a speculare, ma che continua a fornire una figura retorica efficace a tutti i politici populisti e nazionalisti (come Viktor Orban, che parla di «cavallo di Troia del terrorismo», in riferimento ai musulmani).
Una sua ulteriore declinazione è quella dell’elefante bianco. Per gli inglesi si tratta di un’espressione proverbiale che indica un regalo costoso e impegnativo, fatto più per danneggiare che beneficiare chi lo riceve. La leggenda vuole che tutto nasca da una tradizione dei re del Siam (attuale Thailandia) che avevano la bizzarra abitudine di mandarne uno vero, in regalo, come punizione. L’elefante bianco, intoccabile per definizione, avrebbe consumato le risorse e distrutto il villaggio. Come tutte le leggende, è quasi del tutto inventata: gli elefanti bianchi, nel Sud-Est asiatico, erano una rarità per il cui possesso si combatteva. Sembra allora che le cose andassero al contrario: chi possedeva un elefante bianco e non lo donasse al re, allora avrebbe subito la sua ira.
L’usanza del resto ebbe echi anche in Europa. Hanno fu un elefante bianco che il re Manuele I di Lisbona decise di regalare nel 1514 a Papa Leone X. Il regalo fu molto gradito da parte del pontefice e l’elefante divenne in breve una delle maggiori attrazioni di Roma. Quando morì, le parti del suo corpo furono distribuite tra i vescovi come se fossero le reliquie di un santo.
Un altro problema dei regali è che devono essere segreti. Sapere in anticipo cosa si riceve, o addirittura concordarlo con il partner, toglie tutta la magia. Eppure non fu così che Abraham Lincoln accolse il 22 dicembre del 1864 il telegramma del generale Sherman. Gli donava in regalo – questa era l’espressione usata – l’intera città di Savannah. Era uno dei risultati della sua Marcia verso il Mare, con cui il generale portava avanti la guerra contro i Confederati. Da Atlanta fino a Savannah l’esercito dell’Unione aveva distrutto ogni mezzo di comunicazione, bruciato fabbriche e fattorie, distrutto ponti e razziato villaggi e città. Una campagna brutale che però portò alla vittoria e alla conquista della città. Il giorno di Natale le truppe unioniste pregarono insieme ai georgiani sconfitti. E poi mangiarono tutti un po’ di tacchino.
Ci sono anche regali che non lo erano. Ad esempio la Statua della Libertà, che all’inizio era stata pensata dal suo scultore, Frédéric Auguste Bartholdi per il canale di Suez (doveva essere un faro). Gli Stati Uniti vennero dopo: servirono però un po’ di discussione e una sorta di crowdfunding appoggiato da Joseph Pulitzer, che decise di stampare tutti i nomi dei donatori.
Se nella categoria regali strani va messo quello di John Kerry, che da segretario di Stato americano decise nel 2014 di regalare a Sergei Lavrov, ministro degli Esteri russo, un cartone di patate (ricevendone in cambio un sacchetto al loro incontro successivo), non si può dimenticare il cammello regalato a François Hollande per la sua visita in Mali e soprattutto i panda di Mao Tse Tung, con cui addirittura il leader cinese aveva dato il via a un tipo di rapporti internazionali.
È la diplomazia dei panda, con cui Pechino distribuì, dal 1957 al 1983 almeno 24 esemplari di panda tra nove Paesi prescelti. Si tratta di una pratica antica, messa in atto anche nella Cina imperiale. I panda diventano simbolo di rapporti bilaterali privilegiati (più dello stesso elefante bianco) e distendono relazioni complicate. La prima coppia regalata da Mao fu Hsing-Hsing e Ling-Ling, con cui si celebrò il trionfo della visita di Richard Nixon a Pechino. I due animali divennero presto l’attrazione più importante dello zoo di Washington. (Dal 1984 i panda possono essere soltanto prestati per un periodo di 10 anni. In cambio, la Cina riceve un milione di dollari, che sarà destinato a progetti per preservare il suo habitat naturale)