Little Richard “Here’s Little Richard”, 1957
A-wop-bop-a-loo-bop-A-lop-bam-boom!
Sono i 2 secondi e tre decimi più esplosivi della storia del r’n’r. Anzi, sono il punto di partenza della storia del r’n’r. Sono lo sparo dello starter per i 100 metri, sono il suono che ferma il tempo, sono il segnale che da oggi è tutto permesso. Una sorta di urlo primitivo, una preghiera al dio dell’eccitazione, della libertà sessuale, della libertà in tutti i sensi. È il verbo che riscrive la maniera di scrivere un testo, di affermare che quello che non puoi descrivere puoi urlarlo, e va bene così, perchè chiunque lo può capire. È il miracolo laico che può avverarsi solo in rock’n’roll land, dove il suono onomatopeico di una batteria può trasformarsi in una forma d’arte contemporanea.
È anche la maniera di riscrivere la propria storia di Richard Penniman, 22 anni in quel 14 settembre del 1955 quando entra nei leggendari studios J&M a New Orleans, invitato da Art Rupe, a cui sette mesi prima ha mandato una demo, grezza ma sufficientemente rivelatoria da incuriosirlo. Art Rupe è il proprietario dell’etichetta Specialty, che si è affacciata con decisione su questo nuovo mercato giovanile che si sta creando.
New Orleans è un luogo speciale, è il melting pot più ricco e intricato che esista, il meticciato come ragione di musica e di vita: nella multietnica città della Louisiana si mischia tutto – jazz e blues, musica creola e caraibica, rythm’n’blues e zydeco – e la band che Rupe fa trovare al ragazzo è quella di Fats Domino, grande pianista, autore e cantante, altro apprendista stregone del r’n’r con qualche singolo di successo già al suo attivo. Sono eccellenti musicisti, hanno un suono molto personale, basso batteria chitarra e due sax, fra cui quello del magistrale Lee Allen.
Sarà la cifra di Little Richard: il suono di quella seconda take di ’Tutti Frutti’ che a novembre esploderà da tutte le radio ha una connessione diretta con il suono delle big band di rythm’n’blues, riff di fiati a contrappuntare il suo pianoforte, freneticamente al centro di tutto. Non è un suono di chitarre elettriche, che non si sentono proprio, non è un suono secco e crudo di batteria, ma pieno, diretto discendente del jump blues che ha imperato qualche anno prima. I tempi son cambiati, le band si sono ristrette fino all’essenziale, ma l’ispirazione è ancora quella. È evidente quindi il link con Louis Jordan e Wynonie Harris, e la parentela con Fats, ma Little Richard porta il tutto da un’altra parte ancora: viene dalla tradizione gospel, dinamica nella voce come poche, e la riempie di boogie woogie, accentuando il beat e creando così il template del rock e, soprattutto, mettendoci quello spettacolo di faccia e di voce, la più selvaggia che si sia mai sentita su vinile.
Quella faccia, truccata e bistrata e sormontata da quella montagna di capelli chiamata pompadour, altro che ragazzo col ciuffo, e anche quel tipo di musica disinibita e sfrenata, in realtà Richard ce l’ha dentro da un pò. La sua sfrontatezza, la sua esagerata voglia di essere sgargiante e sopra le righe che ne faranno il personaggio più clamoroso del r’n’r sono passate per un lunghissimo percorso di liberazione. Lui la porterà a tutti coloro che rimarranno elettrizzati dal suo irrompere in scena, ma è una conquista che ha prima dovuto maturare. E nell’America degli anni 50, e con tutte le sue contraddizioni personali, non è stata facile.
Richard Wayne Penniman nasce nel ’32 a Macon, Georgia, regione di James Brown e di soul verace, terzo di dodici fratelli di una famiglia povera, la madre fervente religiosa, il padre diacono della locale Chiesa Battista ma anche muratore e proprietario di un club dove vende il suo whisky di contrabbando. La dualità fra sacro e profano che sarà il suo tema portante tutta la vita si evidenzia presto: da una parte inizia da bambino a cantare in Chiesa, dove il suo timbro alto lo differenzia subito dagli altri, ammiratore delle grandi del gospel come Mahalia Jackson e Sister Rosetta Tharpe. È proprio quest’ultima che, sentendolo cantare a 14 anni per conto suo una mattina nell’auditorium dove sta preparando un concerto per la sera, e dove Richard vende bibite e rinfreschi, lo invita ad aprire il suo concerto cantando alcune canzoni, e lo incoraggia a intraprendere una carriera nella musica. La tradizione gospel, quasi inevitabile in quella generazione artisti neri di soul e r’n’b cresciuti in Chiesa e passati alla musica secolare, gli creerà però continui scrupoli e crisi di coscienza, lui che canta ’la musica del diavolo’ e più volte lascerà il mondano mondo del r’n’r per tornare a un’altra musica e un altro stile di vita, morigerato e religioso. Nel corso degli anni, più volte andrà da un estremo all’altro.
Dall’altra, quella sua camminata strana, dovuta a una gamba leggermente più corta dell’altra che lo fa sembrare effeminato, immerso in una comunità con una cultura underground di gay e travestiti, esalta la sua attrazione istintiva verso quel mondo. Sarà l’artista che sdoganerà, in un mondo ancora piuttosto bigotto, gli stereotipi sessuali scandalosi, anche se la sua attitudine nei confronti della omosessualità – come quella nei confronti di Dio – andrà e verrà con le stagioni: a volte contraria, come nella sua autobiografia ’The Life and Times of Little Richard: The Quasar of Rock’ del 1984 («L’omosessualità è contagiosa…non è qualcosa con cui sei nato»), altre volte favorevole, come in un’intervista successiva a Playboy «Amo i gay. Credo di essere il fondatore dell’essere gay. Sono quello che ha avuto il coraggio di cominciare a dirlo. Non scordatevi che mio padre mi ha mandato via di casa a tredici anni per quello. Prendevo le tende di mia madre e me le mettevo addosso. E mi chiamavo ’il magnifico’. Mi mettevo il fondotinta e le ciglia finte quando nessun uomo lo faceva. Ero bellissimo, avevo i capelli lunghi che mi cadevano sulle spalle. Se facevi sapere in giro che eri gay eri nei guai, ma quando sono uscito io non m’importava di quello che la gente pensava. Un sacco di gente aveva paura di starmi vicino».
Più in là si definirà un «onnisessuale», e verso la fine, in un’intervista a una televisione evangelica ci ripenserà ancora, denunciando gli stili di vita trasgressivi: «Dio, Gesù, lui ha fatto gli uomini uomini. E le donne donne donne, capisci? E devi vivere nella maniera in cui Dio vuole che tu viva. Ci sono tanti sentimenti innaturali. Così tanta gente fa di tutto, e non pensano a Dio».
Insomma, l’uomo farà fatica a trovare pace, ma il suo personaggio è fondamentale per rendere il rock il terreno dove ognuno può essere quello che cavolo gli pare. Alla sua morte l’anno scorso Steve Van Zandt, braccio destro del Boss ed enciclopedico storico musicale dell’era dell’oro del r’n’r, che lo adora e a cui si è ispirato per il suo alter ego Little Steven, ha scritto per Rolling Stone un addio pieno di gratitudine: «Tutti i pionieri hanno dato un contributo importante. Elvis Presley ha reso il genere popolare. Chuck Berry ha inventato la narrazione rock. Bo Diddley era la sensualità e il ritmo. Jerry Lee Lewis ha portato il fanatismo religioso selvaggio. Tutti hanno contribuito ma Richard, oltre all’incredibile spirito che viveva attraverso la sua voce, aveva anche l’androginia appariscente che diventerà parte essenziale del rock’n’roll. Veniva a galla solo a volte, ma più apertamente degli altri. Sicuramente ha influenzato Mick Jagger e quel che ha fatto nel film Performance. Non solo ha cambiato Mick, ma ha permesso a tutti di essere androgini. Credo che il glam venga da lì, David Bowie e Marc Bolan e tutti gli altri. In quella celebre foto, David Bowie, Lou Reed e Iggy Pop somigliano tutti a Little Richard. Ha reso accettabile essere gay e fare rock. Era così, cercava una libertà senza limiti. Non solo nell’arte, non solo nel canto, non solo sul palco, ma anche nella vita di tutti i giorni. Ha indicato la via. È la mia religione. Per me, Little Richard è dio. Ha scritto la bibbia che seguiamo ancora tutti. Non devi reprimerti. Non devi seguire le regole. Puoi essere te stesso ed esserne orgoglioso».
Tutti i suoi primi passi sono caratterizzati da incontri che lo spingono in quella direzione: il primo è con Doctor Nubullo, che lo introduce all’idea di performance sopra le righe. Poi nel Medicine Show di Doctor Hudson, nel quale canta la superhit di Louis Jordan ’Caldonia’, e dal vivo si traveste da Princess Lavonne. Quando poi va in tour con Buster Brown & His Orchestra, il primo a dargli il soprannome Little Richard, fa amicizia con Billy Wright, che gli insegna a truccarsi col fondotinta, il baffetto sottile, e costumi di scena sgargianti. La connessione con un dj, Zenas Seras, lo porta al primo contratto con la Camden Records, sussidiaria della RCA specializzata in race records. Incide, ma non viene pubblicato. Siamo al ’53, quando viene messo sotto contratto dalla Peacock Records (i dischi del pavone, un pò come lui), ma neanche questa funziona, è tutto troppo ordinario per distinguersi.
Torna a Macon, ritorna a lavare i piatti al diner del Greyhound, dove incontra Eskew Reeder, altro cantante di r’n’b dalla doppia personalità di genere: Esquerita, il nome della sua presenza scenica, lo aiuta a focalizzarsi, gli insegna quello stile percussivo al pianoforte che segna il passaggio dal r’n’b al r’n’r. Ci siamo quasi: quando una star r’n’b del tempo, Lloyd Price (soprannominato Mr. Personality, memorabili i suoi ’Stagger Lee’ e ’Lawdy Miss Clawdy’) lo sente, gli suggerisce di mandare la demo ad Art Rupe.
E torniamo a quella serata di settembre a New Orleans, negli studi del leggendario Cosimo Matassa, il produttore/ingegnere del suono che ha registrato praticamente tutta la musica che è uscita dalla città, con Robert ’Bumps’ Blackwell alla produzione per conto della Specialty. Il team è formidabile, ma lo stile di Richard è troppo mansueto, poco eccitante, stereotipato. Non riesce a mettere a terra tutta la sua potenzialità. Vanno a rilassarsi in un club, e quando torna interpreta quel dirty blues accellerato, dal testo pieno di doppi sensi sessuali, dichiaratamente gay:
«Tutti Frutti, good booty
If it’s tight, it’s all right
And if it’s greasy, it makes it easy»
Cambia tutto, l’energia si alza, finalmente ci siamo. Ma il testo è troppo osèe, si parla di qualcosa che se è troppo grosso non va forzato, ma oliato per bene. Blackwell sa che non passerebbe, anche se i doppisensi nel lessico nero del r’n’b si sprecano. Ma questo è troppo.
Chiama allora un autore, Dorothy LaBostrie, per lavorarci un pò sopra e renderlo accettabile. Lui cambia un pò di cose: anche l’iniziale “Tutti Frutti, good booty”, tutti frutti bel culo, diventa aw rooty, sinonimo di all right. Si parla di ragazze, Sue e Daisy, e tutto quadra, quel brano immaginato mentre lavava i piatti nel diner, ispirato da un gelato alla macedonia di frutta e che si apre come le rullate del suo batterista finalmente funziona. È passato un lustro dai suoi primi tentativi: «Quando ho cominciato, non ho mai sentito del rock’n’roll. E quando ho cominciato a cantarlo», ha detto a Rolling Stone nel 1990, «è passato molto tempo prima di presentarlo al pubblico perchè avevo paura non piacesse. Non avevo mai sentito nessuno farlo, e avevo paura».
Niente paura, piccolo Ricardo (il nome scelto dai suoi che fu trascritto con errore), la frenesia di ’Tutti Frutti’ è la stessa con cui nei due anni successivi si mangia le classifiche, altro che la frutta. Art Rupe compra per 500$ il suo contratto dalla Specialty, e a febbraio del ’56 il singolo arriva al #2 dei dischi di r’n’b, al #21 nelle classifiche ’bianche’. A ruota arriva ’Long Tall Sally’: è una ragazzina che porta a Honey Chile, importante dj radiofonico, solo tre righe di una canzone:
«Saw Uncle John with Long Tall sally
They saw Aunt Mary comin’
So they ducked back in the alley»
Non è dato sapere se la storia dello zio John che se la fa con Sally la spilungona sia roba di famiglia, ma a Little Richard, a cui l’idea arriva attraverso Blackwell, piace quello ’scappare via nel vicolo’. I due si mettono a scrivere un testo così compatto e veloce che non possa essere stavolta interpretato da Pat Boone, il cantante melodico bianco, re delle classifiche e benchmark della mellifluità, che ha già portato in cima la sua cover di ’Tutti Frutti’. Gli ha fatto un bel regalo di diritti e di popolarità riflessa, Richard per un po’ l’ha considerato “una sorta di mio ufficio stampa”, ma questo fatto di esser rimasto in secondo piano e confinato per le masse dai paletti della ’musica per neri’ gli secca. Il 10 febbraio del ’56 si rientra negli studi J&M, e il 45 è quello che gli dà la definitiva affermazione, due mesi filati in cima alle charts r’n’b. E comunque, anche questa volta non gli eviterà la cover di Pat Boone. Ma poi ne arriveranno altre ben più prestigiose, fra tutte quella dei Beatles.
Perché il fenomeno-LR arriva dall’altra parte dell’oceano, e i Beatles ne son rimasti folgorati. Le loro fonti americane non sono il deep blues degli Stones, svariano dal pop della Tamla al rock’n’roll gentile di Buddy Holly, ma Little Richard l’hanno già incrociato, hanno anche aperto i suoi concerti negli anni di Amburgo. Paul McCartney è innamorato di Richard, lo prende a modello, si è fatto insegnare quella maniera di strecciare e strappare la voce in alto che più alto non si può, sentite ’I’m Down’ e tanti anni dopo anche ’Helter Skelter’, e i suoi ’whooo!’, è puro Little Richard.
In patria, per un nero la vita comunque rimane problematica, specialmente nel Sud ancora segregato. Little Richard comincia a girare come una trottola su una delle sue Cadillac – lo status symbol dell’artista arrivato, bianco o nero non fa differenza – che spesso gli fa anche da camera da letto, visto che sono molti gli alberghi che non accettano gente di colore. Ha una band eccellente, gli Upsetters, con alla batteria Charles Connors che un giorno, quando entrerà nella sua band, James Brown definirà ’colui che per primo ha inventato il funk’. Gli spettacoli sono ancora più esplosivi dei suoi dischi, e lo rimarranno negli anni, anche quando le fortune discografiche scemeranno. È il primo vero showman del r’n’r: corre su e giù per il palco, saltando sul pianoforte, suonando con una gamba sola mentre l’altra sta sulla tastiera, pestando sui tasti come un indemoniato, i vestiti flashosi e la montagna di capelli nero lucido che gli danzano sulla fonte. Canta in maniera sfrenata, falsetti e urli (il suo leggendario ’whoooo!!’) che si alternano al cantato vero e proprio, gli occhi strabuzzati che sembrano uscire dalle orbite con un cartone animato 3D.
L’eccitazione raggiunge livelli pazzeschi, i ragazzi bianchi – confinati sulle balconate dagli organizzatori, sempre in omaggio alla segregazione – si gettano di sotto per arrivare al palco, e si mischiano con i coetanei neri. Si balla senza inibizioni, saltano anche quelle delle ragazze: una notte del ’56 al Royal Theatre di Baltimora una ragazza in platea gli getta le mutandine, un attimo dopo gliene arrivano a decine sul palco, fa partire anche questo trend, lo spettacolo interrotto molte volte per il pubblico fuori controllo. Insomma, lui è selvaggio, e di conseguenza lo è la sua band, lo è lo spettacolo, lo è il pubblico.
Quando Rolling Stone nel 2004 ha pubblicato uno speciale sui 100 più grandi artisti di sempre, Little Richard ha ricordato i tempi, e il suo ruolo nel far cadere le barriere razziali in quegli anni così pericolosi: “La gente chiamava il rock and roll ’musica africana’ o ’musica voodoo’. Dicevano che avrebbe fatto impazzire i ragazzini. Dicevano che era solo una moda – le stesse cose che dicono dell’hip hop oggi. Solo che all’epoca era peggio perché, dovete ricordare, io ero il primo artista nero i cui album venivano comprati dai ragazzini bianchi. E i genitori mi odiavano. Suonavamo in posti dove poi ci dicevano di non tornare, perché il pubblico era impazzito. I fan spaccavano tutto, tiravano bottiglie vuote, saltavano giù dalle gradinate durante i concerti. In quell’epoca i ragazzi bianchi ai concerti stavano su dei palchi sopraelevati – erano i palchi per gli ’spettatori bianchi’. Ma poi saltavano di sotto e si mischiavano con i ragazzi neri”.
Quei primi due anni sono una vera miniera d’oro. Solo nel ’56 porta in classifica altri cinque singoli: ’Slippin’ and Slidin’’, ’Rip it Up’, ’Ready Teddy’, ’Lucille’ e ’She’s Got It’ e ’The Girl Can’t Help It’ dal titolo di uno dei primi ’musicarelli’ americani, con lui protagonista al fianco di Jayne Mansfield (compare anche in due film del dj che ha lanciato il r’n’r alla radio, Alan Freed, ’Don’t Knock The Rock’ e ’Mister Rock And Roll’). La macchina è inarrestabile, a ruota arrivano anche ’Jenny Jenny’, ’Good Golly Miss Molly’ e ’Keep a Knockin’’, firmato da lui solo e il suo primo top ten nelle classifiche pop.
All’inizio del ’57 la Specialty pubblica il suo primo Lp, “Here’s Little Richard” e poi nel ’58 il secondo “Little Richard”. Sono ovviamente due compilation dei suoi singoli, con l’aggiunta di svariati brani, spesso firmati da lui, che non sono dei classici ma neanche dei riempitivi per allungare il brodo. Insieme, sono l’essenziale di Little Richard, quelli che Michael Lydon su ’1001 Albums You Must Hear Before You Die’ ha definito perfettamente come «le cellule staminali del r’n’r». Il terzo e ultimo album per la Specialty, “The Fabulous Little Richard”, 1959, arriva quando Richard ha già lasciato l’etichetta ed è un insieme di leftover e outtakes a cui vengono aggiunti (lo cura nientedimeno che Sonny Bono, il futuro marito e partner di Cher) i cori femminili di un gruppo vocale pop, le Stewart Sisters, un’assurdità. Contiene comunque una incendiaria versione del classico di Lieber e Stoller ’Kansas City’, di cui ha completamente riscritto il testo.
Nel frattempo, Richard ha già avuto la sua prima crisi mistica, la visione di un aeroplano in cielo che prende fuoco, e lo interpreta come un segnale di mollare tutto e tornare alla Chiesa: «Mancavano dieci giorni alla fine del tour, e ho preteso che anticipassimo il ritorno negli Stati Uniti, io e tutto l’entourage. La cosa incredibile è che l’aereo col quale dovevamo originariamente tornare si è poi inabissato nell’Oceano Pacifico. È lì che ho sentito che dietro alle scelte che avevo fatto c’era davvero Dio».
Conseguentemente, finisce la prima fase della sua vita spericolata, e comincia a incidere album di gospel, il migliore dei quali, “The King of the Gospel Singers’”, fa uno strano effetto, soprattutto comparato agli album gospel dell’altro re del rock’n’roll Elvis Presley. Mentre quest’ultimo ha una voce morbidissima, fatta di miele e ambrosia, il gospel di Richard Penniman, pur molto in stile, ha comunque una vocalità più alta, più tagliente, sarà una suggestione ma ti aspetti che da un momento all’altro getti la toga e risalti sul pianoforte.
E così succederà: tornerà nel ’62 con un tour inglese col capello corto da ragazzo per bene, poi ritornerà alla Chiesa, poi farà un altro ritorno, un ’second coming’ al r’n’r all’inizio dei 70, a un certo punto farà tutt’e due le cose insieme, poi una poi l’altra, alternando il palco alla vendita televisiva e di persona della Bibbia. Eternamente attirato dai due estremi, ma ogni volta che tornerà in pista, col suo trucco, i baffetti e il testone di riccioli neri comunque avrà un successo clamoroso, certamente il più longevo e il più in tiro dei vari pretendenti alla corona.
Quei due album, o una compilation di quelle buone (ce ne sono in verità decine e decine) rimangono a distanza di quasi 70 anni qualcosa di insuperato, se nella musica cerchi quel misto di libertà e divertimento, disinibizione ed esagerazione, ritmo e imprevedibilità. Sono suonati benissimo e primordiali insieme, con quei ’whoooo!!’ che ogni tanto volano via come frecce. La Specialty l’ha fregato sulle royalties, negli anni cause e controcause, ma i soldi li ha fatti suonando dal vivo di continuo, e alla fine non si è mai lamentato, facendo pace anche con quella sindrome da arrivato per primo che ha visto gli altri raccogliere più di lui, contento di trovare negli anni 80 un erede, Prince, «il Little Richard della sua generazione. Ma sappi che vestivo viola prima che tu ti vestivi di viola!».
Sempre nello speciale di Rolling Stone, 16 anni prima della sua scomparsa, ha chiosato: «Sono contento di essere stato scelto come uno dei migliori performer, ma non mi importa più di chi è il numero uno e di chi è il numero due. Perché non sarà mai chi penso che dovrebbe essere, non sarà mai nessuno dei grandi del passato. I Rolling Stones hanno cominciato con me, ma mi sono finiti sempre davanti. I Beatles hanno cominciato con me, hanno aperto allo Star Club di Amburgo prima ancora che facessero il loro primo album, ma mi sono finiti sempre davanti. James Brown (che ha iniziato facendo il suo imitatore), Jimi Hendrix (che ha suonato nella sua band negli anni 60), hanno tutti cominciato con me. Io li ho cresciuti, io li ho educati e mi sono finiti sempre davanti. Ma già il solo fatto di essere qui è una gioia, vuol dire che ho resistito al test del tempo».
Come poteva non resistere al test del tempo colui che il tempo, il beat del rock’n’roll, se lo è inventato?
Lucille live 1973