Secondo quanto riportato da Reuters intorno alla metà di dicembre scorso, un gruppo di 23 fondi d’investimento che gestiscono 4.100 miliardi di dollari si è rivolto alle maggiori cinquanta aziende operanti nel settore della chimica a livello mondiale, chiedendo loro formalmente di escludere dalla produzione tutte quelle sostanze rivelatesi più dannose per l’ambiente e per la salute degli individui.
Certamente la motivazione di questa richiesta risiede nella necessità per questi fondi di tracciare una rotta strategica che tuteli il loro capitale da quanto mai possibili rischi di perdite, dato che appunto le aziende chimiche stesse rischiano ingenti perdite proprio a causa di queste sostanze. Ma, qualsiasi sia il motivo, è apprezzabile il dato di fatto che il mondo della finanza e degli investimenti continui a dimostrare una sensibilità crescente nell’orientare il mercato a una sempre maggiore attenzione alla sostenibilità nel senso più completo e complesso.
Lo abbiamo visto succedere in altri settori, pensiamo ad esempio a quello dell’energia: telecomunicazioni, trasporti, logistica, edilizia, stanno rinunciando ai combustibili fossili per aprirsi alle energie rinnovabili, sempre più economiche e pulite, sposando processi ecologici fondamentali come la circolarità e la resilienza.
Come Jeremy Rifkin, presidente della Foundation on Economic Trends di Washington e docente alla Wharton School of Finance, ricorda nel suo ultimo libro, queste dinamiche hanno cambiato molte cose anche nel mondo della finanza in virtù della preoccupazione dei fondi pensione che il crollo dei settori basati sul petrolio possa intaccare i risparmi di milioni di lavoratori. Così hanno preso a disinvestire da queste industrie e a reinvestire nelle tecnologie verdi rendendo inevitabile il crollo della civiltà dei combustibili fossili. Per quanti sforzi possano fare le relative industrie per evitarlo, le forze del mercato sono molto più potenti di qualsiasi lobby conservatrice.
Ma Rifkin ci avverte anche che la “mano invisibile” del mercato da sola non basterà e il sistema non reggerà. Per costruire una nuova civiltà ecologica e la relativa infrastruttura a zero emissioni servirà uno sforzo collettivo che coinvolga governi, attori economici e società civile, quindi denaro pubblico, privato e proveniente dal non-profit.
Ma occorre uno sforzo reale, veritiero, non una mera dichiarazione di facciata utile solo come specchietto per le allodole. Prendiamo ad esempio il settore alimentare: la produzione di carne e di latte continua ad aggravare la crisi climatica per la sua produzione di grandi quantità di gas serra. In un recente articolo, il Guardian evidenzia come nel 2020, la catena di fast food McDonald’s abbia prodotto una quantità di gas serra maggiore a quella prodotta da molti paesi europei nonostante i numerosi annunci di piani di sostenibilità tra cui quello di voler ridurre entro il 2030 il 36% delle emissioni dei suoi ristoranti e dei suoi uffici. Tuttavia, fa notare l’articolo, secondo molti ricercatori questo obiettivo sarebbe insufficiente dato che la quota maggiore delle emissioni non è prodotta dai ristornati e dagli uffici bensì dagli allevamenti.
E questo è il male minore! Spesso e volentieri delle emissioni non si hanno né consapevolezza né misurazioni. Infatti, secondo il rapporto Emissions impossible Europe, delle venti maggiori aziende produttrici di carni e latticini dell’Unione Europea, del Regno Unito e della Svizzera, solo tre hanno annunciato piani per ridurle nell’intera filiera, negli altri casi non il dato relativo alle proprie emissioni non è nemmeno riportano.
Non possiamo continuare a comportarci come abbiamo fatto per decenni. Come se il nostro pianeta potesse offrirci risorse illimitate, come se fosse un soggetto passivo a nostra disposizione. Come se non ci stesse presentando il conto.
Per abbassare le emissioni con la rapidità e l’efficacia necessarie c’è bisogno di una vasta trasformazione industriale, urbanistica e infrastrutturale. Occorre cambiare radicalmente il modo in cui le nostre società producono energia, come coltiviamo e alleviamo il nostro cibo, come ci spostiamo, come sono costruiti i nostri edifici, l’urbanistica e le infrastrutture. Ancora una volta, è un’evoluzione impossibile se non partirà da noi stessi, senza la dimensione dell’essere umano radicato nella sua origine e guidato da una vocazione.