Ora si può dirlo: la generazione che va da Daniele Del Giudice a Silvio Perrella passando per Michele Mari e Giorgio Ficara, comprende i late bloomer Hans Tuzzi e Filippo Tuena, gli eccentrici e diversi Edgardo Franzosini e Francesco Permunian, più manu militari Salvatore Silvano Nigro, è una bella generazione – ed è la mia. Certo non ha avuto un Calvino o uno Sciascia, neppure un Garboli e un Manganelli, ma ha fatto il suo: ha tenuto (e tiene) in vita la lingua italiana, quando tra Rimini e Torino nasceva e dilagava la pura narratività, e girando alla larga dalla gnagnera e dai poggioletti romani con vista sullo Strega e mamma Rai.
Di questa bella generazione fanno parte Antonio Franchini e Giuseppe Montesano. Meritano ciascuno un discorso. Ora, con il mammut Lettori selvaggi e il Baudelaire di Montesano sto ancora combattendo, tra esultanze e irritazioni da gauchisme: il mammut è tanto e mi chiama in campo: abbiamo gli stessi scrittori di riferimento. Inizierò quindi da Franchini, che ha da poco pubblicato un libro notevole: Il vecchio lottatore (e altri racconti postemingueiani), per la casa editrice NN Editore. Ecco: già quel “posteminguieani” dice non poco, di Franchini: fin dalla grafia – ma non corriamo. Si tratta della raccolta di nove racconti, due già editi in rivista ma in forma uno molto diversa e l’altro differente, gli altri inediti: tutti di notevole fattura e forza. Ecco, forza è la parola che mi viene alla mente quando leggo Franchini: intendo forza cognitiva, una delle due doti dello scrittore – l’altra è la potenza immaginativa. Una forza minata dal sentimento di una inadeguatezza che è come una ruggine. Franchini scrive in consonanza con la propria forza cognitiva.
Ho scritto “racconti” ma è più giusto dirli narrazioni: non c’è nulla della esemplarità, al limite dell’apologo che è del racconto: piuttosto la concisione di discorso del récit, il resoconto, la forma narrativa che tiene al discorso quanto alla fabula. Forma narrativa perfetta per l’elegia, l’andante con moto malinconico che calza a pennello allo scrittore: Franchini ne è interprete se non ideale, notevole.
Il primo libro di Franchini che ho letto è stato L’abusivo, pubblicato nel 2001, nato attorno all’inchiesta dell’autore sull’uccisione del giovane giornalista Giancarlo Siani da lui conosciuto e ammirato; e diramato nelle direzioni della riflessione personale, come sarà di tutti i libri a seguire. È un libro notevole – e avrei voglia di rileggerlo. Si imponeva per via di stile, e così di sicuro godrà della virtù della durata: l’unica verità in fatto di letteratura. Il fatto importante è che rivelava uno scrittore dalla poetica compiuta, in pieno controllo dei propri mezzi espressivi e avvertito del luogo della propria scrittura. C’è nel libro una insofferenza per i termini del quotidiano commercio della vita che rimane a memoria: come una sindrome del sopravvissuto. (Sto andando a memoria: è viva, eccome). Qualche anno dopo avrei letto Gladiatori e avrei saputo come Franchini tiene a bada quell’insofferenza.
Gladiatori è un viaggio dentro il mondo della disciplina della violenza – la disciplina è la madre dello stile, e Franchini lo sa bene. Ma c’è un di più, nella violenza che diventa bellezza: il dolore del corpo, che ne riscatta la finitezza e la mortalità. Sono fatti che sanno solo coloro che praticano o hanno praticato a fondo una disciplina sportiva, meglio se a livello agonistico. Ogni disciplina è ricerca del gesto perfetto: nel caso delle discipline che prevedono lo scontro violento l’esecuzione sublime e la riuscita feroce sono tutt’uno: è violenza ed è bellezza. È sacrificio, alla lettera. Ora, cosa meglio del sacrificio riscatta dalla finzione – la rettorica, la diceva Carlo Michelstaedter – del quotidiano? Chi è più persuaso del pugile che colpisce ed è colpito? Oppure del lottatore che forza, alla lettera, i limiti del corpo dell’avversario e del proprio? È l’etica del sacrificio: la porta laica verso il sacro. Il viaggio di Franchini dentro i santuari del sacrificio che sono le palestre di pugilato et similia, luoghi di preparazione alla mattanza di una umanità vivente, è il viaggio di un uomo e uno scrittore alla ricerca di una tregua alla sua insofferenza.
Le narrazioni di Il vecchio lottatore sono costruite con consumata abilità, e va bene: la grammatica della narrazione la do per scontata: non mi commuove più di tanto. (Soprattutto se lo scrittore di mestiere fa l’editor di narrativa, come in questo caso). Il punto è che Franchini in alcune narrazioni porta a perfezione un tono, tutto suo e peculiare: il tono riflessivo, disincantato e teporoso dell’osservatore partecipe ma discosto, giusto un passo in là: ma con un’oncia di sconforto in ogni narrazione, disposta da parere regolata mescolanza e salute: e invece, no, è doloranza e male. È il tono trattenuto di un uomo che cerca di tenere insieme i pezzi.
Le Leonardiadi, la prima narrazione, è un vero e proprio prologo. Con gesto deciso Franchini mette in scena un uomo che ha perduto l’insofferenza della giovinezza, quel garbuglio di spinte contrastanti che accompagnano l’acclimatazione al clima temperato della vita familiare e lavorativa. Ora ha un nuovo compagno: il disagio. Cosa se non disagio organizzato sono le Leonardiadi e tutto il corredo di incontri tra i genitori dei figli impegnati nelle annuali gare di atletica? Un incubo senza risveglio. Pure il vero disagio è del protagonista – e qui Franchini fa una cosa che lo nomina scrittore: sceglie l’apostrofe della voce narrante, va in seconda persona singolare. Quel “tu” cambia tutto: quel che in mano a uno scrivente della pura narratività è destinato a un bagno di gnagnera (un bozzetto verista in salsa rosa postmoderna, con seguito in un film con i dialoghi nell’inascoltabile idioletto del Cinema Romano), diventa un monologo drammatico sommesso e doloroso. Si passa dall’ammissione (“Devi ammettere che, da tempo, le emozioni più forti sono state le Leonardiadi a procuratele”) al rimescolio di filosofemi (“solo una gara assomiglia a una gara, una gara è senza rimedio e senza appello, dritta e asciutta, mentre una vita ha le sue opportunità, le sue occasioni perdute e ricreate”), per finire lì dove è sempre l’arrivo (il traguardo?): “Avevi sempre pensato che una sconfitta applaudita fosse più bella della vittoria, ma era la prima volta che la vedevi, lì alle Leonardiadi, e mai più l’avresti vista così, così rovinosa, così magnifica”. Ecco Hemingway fare capolino. Arriva poi il momento culminante: la campestre dei genitori – ed è la confessione. Non dirò nulla: solo la bravura della frase finale della figlia.
Tolta la prima a far da prologo, tutte le altre narrazioni hanno luoghi hemingwayiani – la pesca, l’Isonzo, la corrida, Cuba, la lotta e il pugilato – e l’unico tema: la morte. (A proposito: nessuno che abbia scritto di come l’ossessione della morte passi in pieno, e poi messo in scena in tutt’altro modo, da Hemingway a Cormac McCarthy. Per due scrittori non esiste altro tema che meriti il tempo e il dono della letteratura). C’è una frase in A un aficionado che rivela certe cose della figurazione di Franchini: “Dentro ognuno di noi c’è un’idea della morte bella. Quando eravamo bambini e giocavamo, mettevamo grandissimo impegno nel morire scenograficamente quando ci sparavano. Ci si rotolava con virtuosismo e si cadeva con eleganza. Per tutti fingere di morire in maniera impeccabile dava assai più soddisfazione che fingere di ammazzare”. Franchini passa poi a dire come i tori siano legati per lui all’idea di una bella morte, che per lui è “un pensiero molto vitale, forse malinconico ma non negativo”: così guarda i filmati delle morti dei grandi toreri, peraltro saldo nella convinzione che per lui il toreo è soltanto letteratura, pur se esiste nella realtà: “Perché la morte del torero è l’unica morte sempre fatidica, come non è quasi mai la morte reale”. Dove tutto sta in quella parola: fatidica, da intendere alla lettera. Infine si sofferma sulla fotografia della testa di Ignacio Sánchez Mejías chinata sul volto del cadavere di Joselito, come lui grande torero e suo cognato, a interrogare “il segreto della stessa morte che avrebbe colto anche lui nell’arena quattordici anni più tardi”. Qui Franchini ha uno sbocco di sentimentalismo esistenzialista: dice che nessuna pagina di poesia “e nessun San Girolamo di nessun Caravaggio” (paragone forzoso, se non incongruo) possono “pareggiare quello scatto”, che più avanti dice “più forte di ogni espressione artistica strenuamente inseguita”. Ecco in piena luce una poetica: la riproduzione della realtà è superiore.
Molto ci sarebbe da dire delle altre narrazioni, soprattutto di quella eponima: non c’è più spazio, se non per rispondere a una domanda che ogni volta mi si presenta: cos’è che manca? Lo si intende leggendo Gli ultimi due italiani di Caporetto, non a caso l’unica narrazione deludente: c’è la Storia, lì, di fronte: serve immaginazione. Ora, a fronte della forza cognitiva c’è in Franchini come un’astenia dell’immaginario evidente e onesta: una angustia, vien da dire, che è sostanziale alla sua poetica e porta a affermazioni incaute. “Lo stile è tante cose. Non è vestirsi, muoversi, atteggiarsi. Non ha niente da spartire con la forma, non è un fatto estetico”, più a seguire una serie di sorprendenti banalità neo-esistenzialiste. “È stare bene dentro un mondo, ma anche non starci dentro fino in fondo, è stare in un altrove irraggiungibile, in qualcosa che non vedi ma non tocchi, che sogni ma non trovi, e ti lascia dentro quella malinconia che non toglie luce dal tuo sguardo, ma lo vela. Quello è il tuo stile, la strada maestra dove chi ti cerca non ti trova, il sentiero dove chi si avventura trova solo te”. Sorvolo sulla enumerazione e la conclusione per carità e simpatia; certo non posso non registrare come a uno scrittore (e editor) di valore come Franchini la parola “forma” continui ad apparire sospetta e allontanata come fosse la peste: atteggiamento che porta a bizzarre affermazioni come quella che vorrebbe lo stile non avere nulla a che fare con la forma.
Non importa: rimane il fatto che Il grande lottatore è uno dei migliori libri italiani della stagione e lo scrittore tra i rappresentativi di una bella generazione. Tutto non si può avere: è da tanto tempo la nota alla letteratura italiana.