Le città in tutti i continenti sono il motore di ogni forma di contemporaneità; e le comunità ne sono il più delle volte inconsapevoli: alla perenne ricerca di un destino favorevole, senza sapere tuttavia come anticiparlo, chiedono alle diverse forme di governo di farsi interpreti della loro spinta, il più delle volte rivolgendosi a un sindaco che ne sappia interpretare le istanze in parte utilizzando la propria esperienza diretta, in parte attingendo al vasto bacino di esempi e alla disponibilità di collaborazione di chi abbia già sperimentato in precedenza tale percorso.
Così Torino ha tentato di trasformare il proprio vissuto industriale grazie all’esperienza di Barcellona; così Istanbul ha compreso di poter essere un potente hub di connessione tra Occidente e Oriente come nel secolo precedente era toccato al Cairo; così Pittsburgh ha scelto la scienza e la tecnologia e appreso da Boston come generare valore aggiunto dalla ricerca nata per affrontare le crisi sanitarie prodotte da un Novecento fatto di fuoco e metallo. Senza badare alle dimensioni, città piccole e medie, come Matera e Wrocław, si sono imposte sulla scena recente della narrazione europea trasformando le proprie vergogne in punti di forza per la rinascita; distruzioni che diventano ponti, evacuazioni che sono richiamo per nuovi modelli dell’abitare.
Le coalizioni pubblico-private capaci di guidare queste trasformazioni possono avere misura temporale e coerenza politica diversa; possono nascere per opportunismo (e allora potranno cedere al battere infame dell’invidia o del potere fine a se stesso) oppure per più meditata consapevolezza che senza gli altri rappresentanti degli interessi urbani, nessun sindaco, nemmeno il più intelligente e apprezzato, possa condurre la partita da solo. In ogni caso, stiamone certi, non potrà avere il passo breve e fa fruttare il cambiamento senza una prospettiva di lungo periodo: le città infatti – come forse le esistenze più piene e rispettose della vita propria e altrui – necessariamente devono contare su un doppio registro, su una musica che è ritmo quotidiano tuttavia inserita in una sinfonia di più ampio e lungo respiro.
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Nonostante il ruolo fondamentale dei sindaci, del loro carisma e della loro leadership, è chiaro che non si possono raggiungere risultati favorevoli di medio-lungo periodo senza un consenso costruito anche su una forte partecipazione della cittadinanza. Sono proprio i grandi eventi a offrire più frequentemente l’occasione per questa partecipazione, che si può e si deve trasformare in orgoglio – se gli eventi hanno successo e non incorrono in alcuno – o in molti – dei frequenti ostacoli che li contraddistinguono: da interessi economici troppo grandi, che fruttano ritorni non propriamente ortodossi, a una visibilità comunicativa che genera invidie e gelosie fra i detentori della primazia politica.
Ma, spesso, nelle aree urbane le questioni più importanti non hanno una soluzione univoca e necessitano piuttosto di un dibattito che non si può limitare alle aule della politica e che arriva invece in maniera potente ai singoli cittadini.
La democrazia rappresentativa, con le sue burocrazie, mette spesso tra sé e chi vota un notevole fossato, che agli occhi dei più appare invalicabile. Ci soccorre allora la democrazia deliberativa, ovvero quella speciale opportunità che dona, come dice Habermas, «legittimità all’azione pubblica». Una legittimità sempre più necessaria e che si snoda, secondo quanto ci testimonia Iolanda Romano, nella costruzione di un consenso non superficiale, che non ha i tempi delle news digitali o della politica politicata (due facce della stessa medaglia) ma piuttosto delle regole ben precise.
Si tratta, quando è possibile ma soprattutto per le grandi scelte da attuare, di non far calare dall’alto decisioni che riguarderanno il bene a lungo termine della comunità, ma di coinvolgerla secondo un tempo stabilito e in luoghi definiti, per discutere di quel dato tema, arrivare a suggerire più opzioni e decidere con un voto a maggioranza, che può riflettere le diverse opinioni ed esigenze, ma che non lascia in stallo la vita cittadina.
Secondo un ritmo triadico, che prevede la presentazione del progetto (fase 1), il dibattito su di esso (fase 2) e la decisione finale sul se e sul come attuarlo (fase 3), la democrazia deliberativa porta al centro le diverse fasi del processo di scelta. Diversamente da quanto è accaduto nella vita politica degli ultimi anni, che ha visto prevalere ampiamente una doppia opzione: o una rapida disamina da parte dell’autorità costituita o una sommaria analisi da parte dei media che fanno propendere per una piuttosto che per un’altra decisione.
Si potrebbe opportunamente obiettare che fino a che avremo leggi elettorali che prevedono la delega, non si capisce perché non applicare con regolarità il concetto di responsabilità: ti ho votato, sei stato eletto, fai le tue scelte secondo coscienza in mia rappresentanza, se le avrai fatte e non mi aggradano più, smetto di votarti.
Eppure, specie nelle città contemporanee, questo pensiero seppur coerente e valido non ha i tempi e le modalità giuste rispetto ai problemi dei cittadini, che vogliono essere chiamati in causa sia nel metodo che nel merito; tutti i giorni si è al lavoro per trasformare la città in modo sempre più vivibile, ma se la maggior parte dei cittadini resta totalmente esclusa dai percorsi decisionali, progressivamente – e inevitabilmente – si disamora della vita democratica urbana.
Quante volte i programmi fatti in campagna elettorale da esperti e portati al traguardo da questo o quel sindaco vengono non solo disattesi, ma scientificamente messi da parte appena conclusosi l’eventuale ballottaggio? Costruzione di stadi, centri commerciali, sedi universitarie, definizione del percorso e degli orari dei mezzi di trasporto, investimenti su un settore economico piuttosto che su un altro: perché non far diventare il processo di democrazia deliberativa il pilastro di queste scelte? Non è difficile fare un passo indietro e porre corrette basi di scelta, una scelta in cui pochi cittadini selezionati rappresentano gli interessi della totalità e se ne fanno carico.
Da “Il paradosso urbano – Nove città in cerca di futuro” di Paolo Verri (Egea Editore), 298 pagine, 21,38 euro