Questo è un articolo dell’ultimo numero di Linkiesta Magazine + New York Times Turning Points 2022 in edicola a Milano e Roma e ordinabile qui.
Quando Mario Draghi, nel suo famoso discorso a Londra, nel luglio del 2012, pronunciò la famosa frase «Whatever it takes», chiosò con un «And, believe me. It will be enough». Credetemi, disse, sarà abbastanza. Quella seconda parte, probabilmente, ha acquistato per me molto più valore della prima, soprattutto risentendola in questi giorni, mentre ancora, con pazienza, attraversiamo un’altra fase della pandemia.
Quel momento, ci ricordiamo, fu un segnale ai mercati che, qualsiasi cosa sarebbe accaduta, si sarebbe generato un meccanismo virtuoso, una controazione pratica e chiara che avrebbe supportato le economie dell’Euro e ridotto il rischio di contagio finanziario. Fu un momento rivelatorio perché svelava un senso di misura e di contenimento, e, nel believe me, quel senso di fiducia fra le persone che dovrebbe rimanere alla base di ogni interazione umana, che sia sociale, politica o di tipo economico.
«Believe me, it will be enough» di Draghi è l’affermazione di un senso di identità, il ribadire che quello che siamo e facciamo è abbastanza, se la matrice valoriale è eticamente corretta, per risolvere i problemi. E per cambiare le cose. In questi anni di pandemia e di grandi cambiamenti, siamo spesso rimasti travolti dalla percezione di eventi e cambiamenti più grandi di noi, sommovimenti climatici e rivoluzioni tecnologiche a cui facciamo fatica ad adeguarci. L’isolamento del lockdown ci ha messi di fronte a una vita di ripetizione e di quarantene, un mondo sospeso ma, in fondo, un momento in cui abbiamo dovuto rivedere quello che siamo e che vogliamo.
Negli Stati Uniti, uno degli effetti insoliti della pandemia è il fenomeno della Great Resignation o Big Quit, dimissioni in massa di dimensioni talmente ingenti da essere registrate nelle statistiche del lavoro statunitensi. Le radici del fenomeno non sono ancora chiare, ma, sicuramente, hanno prevalso una presa di coscienza diversa e un desiderio di uscire dal meccanismo spesso alienante del lavoro. Il fermo biologico delle quarantene ha creato un senso nuovo di identità. E un nuovo insieme di desideri e di priorità.
Ed è questo tema, dell’identità, da un lato come appartenenza a una avventura collettiva, il «sarà abbastanza», perché troveremo assieme come sbrogliare la matassa, e, dall’altro, come valore riconquistato di fare le proprie scelte, che vedo come temi fondamentali per il prossimo anno, se non per tutto questo decennio. Siamo nella decade della identità. La vera rivoluzione che abbiamo di fronte non è quella dei big data o della intelligenza artificiale, ma quella del rinnovamento del senso di identità, non solo a livello personale, ma anche a livello di impresa e di istituzioni più complesse, come un governo.
In un libro molto evocativo del 2014 di David Birch, dal titolo “Identity is the new money”, l’autore esaminava come l’avvento di internet, dei social media e della capacità di connessione mobile avrebbe creato un completo riassetto del concetto di identità, dato che ognuno di noi a breve avrebbe dovuto fare i conti con un dualismo fra presenza fisica e digitale, con un crescente senso di continuità creato da tecnologie immersive o 3D.
E, nel libro, l’identità diventa il valore, più della moneta o degli investimenti, perché, per l’autore e per altri sociologi come il compianto David Graeber, autore di “Debito, 5.000 anni di storia” il denaro è il mezzo e non il fine del patto sociale che sottoscriviamo con la nostra esistenza e le nostre attività. L’identità diventa valore, perché nel mondo dei prossimi anni, in cui i social media diventeranno promotori di mondi virtuali, il metaverso e simili esperienze fra mondo fisico e virtuale, tutti avremo bisogno di riaffermare e decidere quanto del nostro insieme di preferenze, scelte valoriali, gusti e desideri vorremo rivelare e far parte della nostra persona. Quella che David Birch chiama l’identità negativa, o una specie di avatar per sottrazione, dove decido di rivelare e di associare alla mia identità solo alcuni aspetti. O, invece, la decisione di entrare nella nuova era come un continuum fisico e virtuale, dove la persona in carne e ossa diventa digitale e mantiene la sua matrice di preferenze e valori.
Saranno tempi complessi, in cui a questa divaricazione fisica e virtuale si uniranno anche nuovi attori e interazioni, con operatori non umani. Già molti di noi fanno l’esperienza di interagire con algoritmi e robot per molti servizi in linea. Un fenomeno destinato a crescere, ma dove, probabilmente, per le cose mondane di questo mondo, da pagare una bolletta a discutere di alcuni temi, non avremo solo un call center robotico, ma, probabilmente, noi stessi riusciremo ad avere robot personali, software che, sapendo tutto di noi, potranno prendere decisioni basate sui nostri sistemi di preferenze, budget e intenzioni.
Sarà abbastanza? No. L’identità rimane un tema del futuro e, di seguito, alcuni spunti su cui invito i lettori de Linkiesta Magazine e di Turning Points del New York Times a riflettere, partendo dalla mia esperienza umana e professionale.
Identità come matrice di valori – Il fenomeno a cui accennavo sopra, del Big Quit, è un segno inequivocabile che la pandemia ha riscritto una parte importante del nostro codice comportamentale. A quello si aggiunge la propensione a lavorare da casa e a dare sempre più valore ad altri tipi di ritorno, non solo quello economico, ma anche quello sociale e ambientale. E all’appetito per equità, trasparenza e correttezza nelle relazioni sociali e professionali. L’identità di ognuno di noi è una matrice, un insieme di cose che reputiamo giuste e, in questo mondo iperconnesso, stiamo tutti imparando dagli altri, anche dai social media, che esiste un sistema di valori globali.
La rete ci ha fatto aprire gli occhi al mondo, forse di più nella noia apparente dei giorni di quarantena. E abbiamo scoperto che l’empatia è un valore universale, come il desiderio di lasciare alle prossime generazioni un mondo migliore. Come descrive molto bene nel suo libro “The Economics of Enough” Diane Coyle: «The first of the principles to inform our future is stewardship, the need to ensure that future generations will have at least as much as our own. Lengthening the time horizon for policymaking, whether thinking about carbon emissions or government debt, is an urgent priority». Tempi moderni e veloci, paradossalmente, ci hanno permesso di riflettere su quale identità e su quale struttura di valori vogliamo affrontare il futuro non solo nostro ma dei nostri figli. Riscoprendo il lungo periodo, o il dialogo intergenerazionale, come orizzonte.
Identità come presenza digitale – Durante la pandemia, abbiamo visto la crescita più che esponenziale dello SPID, la identità digitale del governo italiano fino a oltre 25 milioni di italiani. Sempre durante la pandemia, il lancio di strumenti come il Green pass e il Passenger Locator Form per i viaggiatori, ha permesso la gestione più effciente delle varie ondate del virus, come in altri Paesi il lancio di piattaforme per il controllo dei casi e delle vaccinazioni. Di fatto, il futuro della nostra identità, come riferimento amministrativo e relazionale con il sistema dei pagamenti e commerciale, passa dalla creazione di un profilo digitale, sempre più connesso ad altri servizi.
E, se crediamo che lo sviluppo tecnologico ci farà sempre di più gestire ogni cosa attraverso software e robot, non è altro che un bene. La standardizzazione delle informazioni ne permettono una gestione migliore e, con l’avvento delle blockchain, la creazione di una identità digitale è il primo mattone per la tokenizzazione o la creazione di codici unici che riguardano non solo i bitcoin ma ogni asset e soggetto che può essere codificato. E l’identità digitale diventa il token, la chiave di accesso alle piattaforme sempre più complesse e omnicomprensive.
Non a caso, due ricercatori della Banca d’Italia, Oscar Borgogno e Roberto Savini Zangrandi, hanno pubblicato nel novembre 2021 un working paper intitolato “Data Governance and the Regulation of Platform Economy”, dove mettono l’accento sulla necessità di regolare bene l’utilizzo dei dati personali sulle piattaforme, sulla natura transnazionale dello spazio cyber e sulla necessità di un dialogo fra i vari stakeholder, cittadini inclusi, su come saranno e dovranno essere gestiti i dati di queste identità digitali.
Identità digitale o direzione digitale? – Una delle sfide più interessanti di questa transizione sociale, fra spazio reale e virtuale, è che, paradossalmente, la estrema liquidità della rete potrebbe permettere a tutti di diventare padroni delle proprie informazioni ed usarle in linea con i propri valori. Da un lato, tutti abbiamo la preoccupazione che i nostri dati possano essere compromessi, ma, man a mano che entreremo nello spazio liminale fra mondo fisico e virtuale, potremo controllare sempre di più la nostra presenza virtuale. E, da un certo punto di vista, quello che siamo e che vogliamo diventerà una maniera per influenzare processi decisionali.
Da tempo, vedo la digitalizzazione e la creazione di piattaforme di creazione di servizi digitali e in futuro di tokenizzazione come un obiettivo imprescindibile, un diritto universale di ogni cittadino. Non tanto come un codice fiscale, ma come un passaporto per questo mondo del futuro.
Identità come mattone della sostenibilità – Un’altra cosa che abbiamo imparato durante la pandemia, oltre ai cieli azzurri di Nuova Delhi, senza traffico a causa del lockdown, o dei canali di Venezia in cui abbiamo scoperto vivere tantissime specie di pesci, è che quello che facciamo conta. I nostri comportamenti personali hanno un notevole impatto sull’ambiente circostante. Se riusciremo, in questo spazio della nostra nuova identità fisico-digitale, a sapere qualcosa di più di noi stessi, o delle organizzazioni per cui lavoriamo, probabilmente potremo essere noi stessi un mattone chiave anche della transizione ecologica e climatica.
Non è un caso che uno dei primi eventi in presenza importanti dall’inizio della pandemia sia stato il raduno a Milano nello scorso se!embre del Youth4Climate, una riunione di quattrocento giovani attivisti, supportata nell’ambito del COP26. La nostra identità personale, quando diventa collettiva, può cambiare il mondo. Il fatto che le nuove generazioni ci diano sempre più feedback sui nostri comportamenti (e chi ha figli in età adolescenziale sa di cosa parlo…) ci permette di aggiustare il nostro senso di identità e di presenza nel mondo, adattandoci a una specie di identità universale che tende al meglio. E questo, spero, sarà, se non abbastanza, molto. Anche per ricostruire quel senso di fiducia e di empatia di cui abbiamo tutti bisogno mentre entriamo in un periodo di grandi trasformazioni.
Linkiesta Magazine + New York Times World Review in edicola a Milano e Roma e ordinabile qui.