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La missione su Marte testimonia gli sforzi di chi ha lottato e si è sacrificato per offrire un domani migliore alla prossima generazione. Il 18 febbraio 2021 un esploratore robotico pesante una tonnellata che trasportava un assortimento di gadget e aggeggi scientifici è atterrato sulla superficie di Marte. Il suo nome era Perseverance.
Gli obiettivi della sua missione erano chiari: studiare l’evoluzione geologica del cratere Jezero (una regione di Marte che una volta, più di 3 miliardi e mezzo di anni fa, era piena di fiumi e di un bacino idrico delle dimensioni del Lago Tahoe), cercare le eventuali prove della vita microbica che potrebbe essersi sviluppata nel passato umido del pianeta e raccogliere campioni di roccia e di terreno. Le prime immagini che il rover Perseverance ha trasmesso sulla Terra dal luogo in cui è atterrato (luogo che è stato chiamato Octavia E. Butler, in omaggio alla celebre scrittrice di fantascienza) hanno mostrato ampi panorami e vorticosi mulinelli di sabbia, un paesaggio che mi ha ricordato i romanzi di fantascienza che leggevo da bambina.
Come tutti i grandi esploratori, Perseverance aveva un accompagnatore, il drone-elicottero Ingenuity. Primo velivolo motorizzato a volare su un altro pianeta, Ingenuity sfrecciava insieme a Perseverance e perlustrava la superficie di Marte. Io sono ingegnere e ho il privilegio di far parte della continuativa esplorazione del Pianeta rosso condotta dalla Nasa. Perseverance e Ingenuity sono il prodotto dei prolungati sforzi del nostro team al Jet Propulsion Laboratory in California.
Negli anni scorsi abbiamo lavorato a questa missione per un incalcolabile numero di ore e abbiamo superato ostacoli tecnici, condotto battaglie personali e anche affrontato sfide globali, con il solo obiettivo di scrivere questo nuovo capitolo della storia delle esplorazioni umane. Si è arrivati a questo momento di straordinaria importanza per l’umanità grazie alla convergenza di molte traiettorie e di molte scelte diverse, ma vale la pena di ricordare che ciascuno ha la propria personale storia di esplorazioni e quest’ultimo anno mi ha offerto molti momenti per riflettere sulla mia e su quella della mia famiglia.
Anche se sono nata a Los Angeles, i miei genitori e i miei nonni sono arrivati negli Stati Uniti dal Messico tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. I miei nonni lavoravano nel settore edilizio o in fabbrica e avevano il fermo desiderio che i loro figli ricevessero una buona istruzione. Un bel po’ di anni fa, ho portato mia nonna Antonia – o Nana Toñita come mi piace chiamarla – al Jet Propulsion Laboratory in un giorno in cui era aperto ai visitatori esterni.
A mia nonna è sempre piaciuto molto imparare le cose, specialmente quelle che riguardano l’universo. Per questo appariva entusiasta mentre guardavamo i robot terrestri che gironzolavano e interagivano con i visitatori. E dopo, con gli occhi pieni di lacrime, mi ha raccontato una storia che non dimenticherò mai più. Lei e mio nonno, arrivati da poco negli Stati Uniti dal Messico, lavoravano entrambi nel Garment District di Los Angeles. Dal momento che erano immigrati clandestini, per loro l’arrivare alla fine del mese, convivendo con la paura di essere rimpatriati, era una sfida costante.
Un giorno le autorità dell’ufficio immigrazione fermarono i miei nonni e li condussero a un centro di identificazione. Mia nonna mi ha detto che si ricorda benissimo che lungo il percorso aveva ascoltato alla radio la cronaca della missione dell’Apollo 11 e che si era molto meravigliata perché le sembrava irreale che l’uomo potesse esplorare la Luna. Penso che, così tanti anni dopo, abbia avuto la stessa percezione di irrealtà mentre visitava il nostro laboratorio. E io ho conservato gelosamente questa storia.
A febbraio, mentre Perseverance scendeva attraverso l’atmosfera di Marte ho guardato, proprio pochi secondi prima dell’atterraggio, i volti dei miei familiari che erano lì con me attraverso Zoom. Io mi sentivo come se fossi sulle loro spalle. E mentre loro esultavano, i miei occhi si riempivano di lacrime. «Mija, ya llegamos a Marte», ha detto Nana Toñita. «¡Somos exploradoras!» («Bimba, siamo arrivate su Marte, siamo delle esploratrici!»).
Mi è tornata in mente, in un flashback, la sua storia sull’Apollo ed è stato come se un cerchio si fosse chiuso. Molti di noi discendono da immigrati come i miei nonni che credevano che là fuori ci fosse qualcosa di meglio per loro. Non importa se fossero venuti in America per avere più opportunità, più istruzione o più sicurezza: hanno avuto in ogni caso il coraggio di fare quei primi passi in un mondo sconosciuto e che faceva paura.
Hanno rischiato tutto e hanno affrontato le molte sfide di chi fa una cosa per primo. Ma, grazie alle loro lotte e ai loro successi, hanno preparato per le generazioni successive un sito per l’atterraggio e hanno aperto una strada perché potessimo seguirli e avessimo una base su cui costruire. Mia nonna è stata la mia Pathfinder e io sono stata la sua Perseverance (il riferimento è a una precedente missione della Nasa su Marte, ndr).
Ho cominciato a rendermi conto che gli esseri umani sono più simili ai nostri esploratori robotici antropoformizzati di quanto non pensiamo. Come noi, anch’essi discendono da generazioni di esploratori. Per quanto riguarda Marte ci basiamo su quanto hanno fatto in passato Curiosity, Opportunity e Spirit. Ora Perseverance e Ingenuity spingono più in là i limiti di ciò che è possibile.
Intanto noi continueremo a intrecciare le nostre diverse eredità, idee e visioni. Progetteremo e svilupperemo nuove tecnologie che ci possano aiutare a vedere meglio quello che c’è là fuori, e continueremo a darci da fare per avanzare verso un domani migliore.
© 2021 THE NEW YORK TIMES COMPANY AND CHRISTINA DÍAZ HERNÁNDEZ
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