Scritta malePerché bisogna correggere la proposta di legge Meloni sull’equo compenso

Il ddl presentato da Fratelli d’Italia rischia di svantaggiare i professionisti contrattualmente deboli, salvaguardando i committenti forti. Se venisse approvato sarebbe come mettere una bomba a orologeria sotto le casse previdenziali

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Dopo l’approvazione alla Camera è in discussione al Senato un disegno di legge sull’equo compenso promosso da Fratelli d’Italia e a prima firma Giorgia Meloni. Un testo con molte criticità, che rischiano di penalizzare, anziché aiutare, i lavoratori e le lavoratrici autonome, soprattutto giovani. L’equo compenso nel nostro ordinamento già c’è, laddove si fa riferimento a un compenso proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro e alle caratteristiche della prestazione. Le sanzioni previste dalla proposta in discussione nel caso di mancato rispetto della soglia definita equa, però, rischia di svantaggiare proprio i professionisti contrattualmente deboli, salvaguardando i committenti forti.

Perché? Il motivo è semplice. Il testo prevede solo due tipi di professionista: 1) quello che non assume l’incarico sotto soglia e quindi non può agire contro il committente; 2) quello che lo accetta, ma non può chiedere l’incremento del compenso perché altrimenti verrebbe sanzionato dall’ordine di appartenenza.

In questo modo, per dare un compito improprio agli ordini professionali, si dà vita a uno strano sistema in cui l’unico professionista non contemplato è proprio quello che si dovrebbe tutelare, ovvero colui che, ricevuto un compenso inferiore alla soglia, avvia un giudizio che porta a sanzionare il committente (non il professionista stesso, sottopagato e spesso giovane!).

Come se non bastasse, la proposta di legge pone le sanzioni a carico dei soli professionisti iscritti agli ordini, dando vita a un sistema a geometria variabile che non tiene conto del fatto che sul mercato dei servizi professionali operano anche altri soggetti. Se in relazione alle medesime attività si stabilisce per legge che alcuni operatori (nel caso di specie società di servizi e grandi società di consulenza, anche a proprietà straniera) godono di piena libertà negoziale, mentre altri (i professionisti) ne vengono limitati, è chiaro che questi ultimi rischiano di essere penalizzati o addirittura espulsi dal mercato.

Un processo che potrebbe avere conseguenze nefaste sul sistema delle Casse previdenziali, poiché favorirebbe la traslazione di molte attività dai loro iscritti verso altri soggetti, finendo per pesare gioco forza sui bilanci degli enti. Insomma, se la legge non cambia, si rischia di mettere una bomba a orologeria sotto le Casse previdenziali.

Che tutto ciò venga sancito in una legge denominata “disposizioni in materia di equo compenso” suona come un paradosso. Intendiamoci: quel testo di legge può andare, ma le maggiori criticità devono essere modificate al Senato per poi approvarlo subito dopo alla Camera. L’equo compenso delle lavoratrici e dei lavoratori autonomi è da sempre una battaglia del Partito democratico, entrata nell’ultima legge di bilancio della scorsa legislatura. Se ora si vuole dare una bandierina all’unico partito di opposizione (che già gode di ampie rendite negli spazi televisivi), lo si faccia pure, ma senza far danni: migliorando il testo di FdI e dando piena attuazione alle norme del 2017. A partire dalle pubbliche amministrazioni, che devono smetterla di sottopagare il lavoro autonomo.

Smettiamola di inseguire l’equo consenso, strizzando l’occhio solo ad alcuni settori degli ordini professionali, e torniamo a occuparci dell’equo compenso dei giovani professionisti del nostro Paese, non ordinisti inclusi.

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