Arnaldo Forlani lo chiamavano Amleto per quella sua permanente espressione un po’interrogativa, quell’eloquio sfuggente e indeterminato, quell’aria tra lo smarrito e lo stupefatto, quel muoversi guardingo nelle onde democristiane. Tanti decenni dopo, il ruolo di Amleto va di diritto a un politico completamente diverso dal leader democristiano, uno superdinamico, polemico al limite della rissa, uno che la politica la morde più che lisciarla e che tra pesanti spintoni dati e ricevuti fa ammattire tutti: Carlo Calenda è oggi la rappresentazione del dubbio amletico. Tollererà, il mancato sindaco di Roma (purtroppo?) «i colpi dell’ingiusta fortuna» o si ribellerà ai potenti del Nazareno?
Purché non esageri, che alla fine diventa stucchevole: ma non è colpa sua se il bivio davanti al quale lo ha posto la cronaca politica è di quelli che non lasciano scampo, o vai con la coalizione messa su dal Partito democratico o vai da solo a costruire il chimerico terzo polo, né di destra né di sinistra, riformista e modernizzatore ma inesorabilmente minoritario, vaso di coccio tra vasi di ferro che magari arrugginiscono presto ma lì per lì sono più forti.
Perché il rovello calendiano gira proprio su questo punto: conviene oggi fare una scelta minoritaria ma buona per il futuro, insomma investire sulla certa liquefazione del polo lettiano e di quello meloniano, oppure entrare in campo in una squadra poco amica e giocare adesso il tutto per tutto? Quest’ultima è l’opzione di Emma Bonino, che tra l’altro ha anche l’esenzione per la raccolta delle firme, scelta che non convince del tutto il nostro Amleto che d’altra parte fino a poco tempo fa giurava e rigiurava sulla scelta del terzo polo, o come si chiama adesso, nel quale in teoria potrebbe saldarsi con Matteo Renzi, un altro irregolare della politica, ma il tema pare nemmeno si ponga, con il rischio di avere ben due forze fuori dalle coalizioni.
Mentre Calenda e Renzi ballano sulle note dell’orchestrina del Titanic, in questa fase è utile monitorare cosa pensa di fare il Pd, che sta evidentemente tentando di recuperare voti a sinistra, quelli annegati nel mare magnum dell’astensionismo e quelli mangiati dalla ex macchina grillina: «La sinistra è il Pd», lo slogan di Enrico Letta, pronto a citare il Berlinguer dell’ultimo comizio – andremo casa per casa, strada per strada – calandosi anche fisicamente nel ruolo del capo della sinistra (ora si dice front runner) in prima fila sul campo di battaglia – in fondo, è stato chiamato a fare questa parte – e così facendo sposa l’impostazione della sinistra dem, refrattaria a quei contenuti calendiani che secondo loro potrebbero oscurare la nettezza del profilo di sinistra del partito.
È ovvio poi, manco a dirlo, che se a Azione venissero srotolati tappeti rossi in termini di posti sicuri tutte queste ambasce evaporerebbero in un attimo: ma il Pd non sta aiutando, credendo in cuor suo che anche per Calenda valga l’anatema anti-Renzi: Carlo porta via voti, anche e soprattutto per aver fatto salire a bordo Maria Stella Gelmini, Andrea Cangini, forse Mara Carfagna, magari altri detestati, dai dem, ex berlusconiani (come se la prima lezione della politica nonfosse quella di portare di qua quelli che stavano di là).
Ora è evidente che se Calenda non sarà nella coalizione a trazione Pd, quest’ultima si prospetterà molto sbilanciata, con un Pd che giorno dopo giorno va dimenticando il nome e l’azione di Mario Draghi, come negli amori adolescenziali, e che si butta a sinistra circondato dai Nicola Fratoianni, verdi, bersaniani, Luigi Di Maio e tanti para-grillini, da Nicola Zingaretti fino, forse, a Michele Emiliano, come se il tempo si fosse fermato, invece di guardare avanti.