Prima o poi, anche ai più affezionati consumatori di cibo da asporto – gli habitué del tonno in scatola mangiato direttamente dalla confezione – sarà capitato di trovarsi per le mani il ricettario di qualche mamma, nonna o prozia e di scontrarsi con la loro mal riposta fiducia nella capacità dei posteri di decifrare le loro dritte culinarie.
Perché stare dietro ai fornelli e trasformare ingredienti sparsi in un piatto riuscito è un’arte complessa e nobile.
Una, nessuna, centomila varianti
Prima che l’avvento dei rispettivi disciplinari ne codificassero in forma definitiva e inequivocabile la ricetta, sono esistite infinite versioni bagna coada, brodetto, cacciucco, canederli e così via. La “versione migliore” era quella tramandata in famiglia, servita al pranzo della domenica, capace di rievocare ricordi infantili e di far rivivere i momenti di intimità domestica legati alle occasioni speciali. La ricetta perfetta era quella appresa seguendo i consigli delle donne di casa, e soprattutto osservando i loro gesti sapienti, sempre uguali a se stessi, ma tutti diversi gli uni dagli altri.
Dall’emulazione all’interpretazione
Fino a una certa epoca “scrivere le ricette” ha rappresentato un semplice esercizio di vanità, nato dal desiderio di lasciare traccia di quanto solo l’esempio diretto e la “vita in cucina” potevano insegnare davvero. E questa consapevolezza bastava a legittimare le numerose omissioni e le indicazioni sibilline presenti nei ricettari vergati a mano dalle antiche custodi del gusto familiare.
Oggi che quella possibilità di emulazione dal vivo si è persa, i ricettari dovrebbero fornire una giusta compensazione scritta e garantire una piena comprensione di tutti i passaggi necessari a ricreare nel piatto la suggestione di gusto promessa dal titolo.
Una ricetta oggi deve essere la trasposizione “nero su bianco” di tutte le indicazioni e le imbeccate che un tempo sarebbero state affidate in diretta all’insegnante di cucina di turno.
Il coraggio di abbandonare il q.b.
Non è neppure un monosillabo, ma basta come monito e incitamento a esercitare il buon senso e ad affinare il palato. L’acronimo di “quanto basta” è onnipresente sui ricettari di un passato non troppo lontano ed è testimonianza di una concezione democratica del gusto e di una cieca fiducia nella capacità del cuoco allievo di correggere il sapore di ogni preparazione, aggiungendo alcuni ingredienti fondamentali nella misura ideale per non rovinare il piatto. Attenzione: basta un eccesso di olio per far impazzire la maionese!.
Oggi che i cuochi neofiti sono soli nelle loro cucine e non sempre possono alzare il telefono e chiedere suggerimento ai rami più alti dell’albero genealogico, il q.b. suona quasi come una provocazione, una dichiarazione di anarchia culinaria, il tentativo dello scrittore di deresponsabilizzarsi, rimbalzando sull’esecutore inesperto la colpa del “troppo” o “troppo poco”.
Non affidarsi (solo) al sentimento
In un’era in cui il cibo riempie i social network, i blog e le trasmissioni tv ma non si può più contare su un background acquisito nel tempo, nei ricettari non c’è più spazio per il foodporn né per una declinazione sentimentale della cucina: una cosa è la suggestione romantica legata all’atto del cucinare, un’altra è riuscire a svolgere una preparazione dalla A alla Z seguendo delle direttive tecniche precise e didascaliche, forse un po’ asettiche ma capaci di evitare fenomeni metafisici come l’uvetta “precedentemente ammollata” senza che nessuno l’abbia messa in ammollo, o il forno “preriscaldato” che però nessuno ha acceso perché l’indicazione non è stato fornita al momento giusto.
Ogni ricetta dovrebbe quindi bandire ogni ambiguità, prevedere e prevenire gli eventuali dubbi che potrebbero presentarsi in corso d’opera e fornire tutte le risposte alle ipotetiche domande di chi dovrà seguirla.
Gli ingredienti non crescono nel frigo e le dosi non sono un’opinione
Ma come si scrive una ricetta? Innanzitutto pensando bene a chi dovrà applicarla nella realtà. Non diamo per scontato che nella dispensa di qualsiasi single ci siano già l’olio per soffriggere, il vino per sfumare, la farina per pastellare o le spezie per impreziosire.
La spesa è il primo passaggio da indicare al lettore, con un elenco in cui siano citati tutti gli ingredienti che entreranno nel piatto, in ordine decrescente per quantità o in ordine di utilizzo – di solito la prima opzione “funziona meglio” – facendo uno specifico riferimento alle dosi totali necessarie – in grammi, etti, chili, millilitri, litri e così via – e al numero di commensali a cui sono riferite; sarà poi al cuoco di turno a modificarle in proporzione al numero dei suoi ospiti.
Non barare sul tempo
Prima di cominciare con la descrizione del procedimento, bisogna rendere consapevole il cuoco estemporaneo del tempo che trascorrerà in ostaggio della ricetta. Inutile illuderlo limitandosi a indicare il tempo di cottura, omettendo gli antefatti o la postproduzione necessari per poter portare il piatto in tavola.
La pizza cuoce sì in pochi minuti e va mangiata espressa, ma l’impasto deve lievitare dalle 12 ore in su prima di entrare in forno. E, viceversa, preparazioni come il tiramisù e gli aspic si preparano in poco tempo ma richiedono un lungo riposo in frigorifero prima di poter essere serviti.
Persino alcuni tipi di carne, non possono essere “cotti e mangiati” ma devono subire una serie di procedimenti “pre” e “post”, che vanno dalla marinatura all’affumicatura, dal riposo dopo la cottura per lasciar ridistribuire uniformemente i liquidi, all’attesa fino a 2-3 giorni necessaria perché tutti gli ingredienti sprigionino al meglio i loro aromi. Insomma: solo un ricettario onesto può salvare la cena e la reputazione del padrone di casa.
Parlare come si mangia, scrivere come si cucina
Scrivere una ricetta significa raccontare per filo e per segno quello che si fa – o si dovrebbe fare – durante la permanenza in cucina, elencando tutte le operazioni da compiere nell’ordine più logico e funzionale possibile, senza lasciare sottinteso nessun passaggio: altrimenti torna il rischio per il lettore di imbattersi nella sopracitata “uvetta autoammollante”.
Anche il funambolismo linguistico può essere controproducente e rendere inefficace una ricetta tecnicamente irreprensibile. Infatti anche se il dilagare dei cooking show ha fatto entrare molti termini specialistici nelle cucine comuni, non è detto che chi legge sappia cosa sono una concassè, la brunoise, la bisque o il roux, o che abbia ben chiaro cosa significa sbianchire, deglassare, caramellizzare, flambare e così via.
La regola d’oro è tenere presente che, chi si affida a un ricettario, nella maggior parte dei casi non ha una formazione alberghiera né è mai entrato in una cucina professionale. Quindi meglio rinunciare all’esercizio di stile autoreferenziale e cominciare a “tradurre”.
Autochecking: la regola della spunta
La cucina è come il bricolage: se al termine dell’“assemblaggio” avanza un componente, significa che qualcosa non ha funzionato. E ci sono due possibilità: o l’autore ha dimenticato di citare il passaggio in cui l’ingrediente rimasto avrebbe dovuto essere utilizzato, oppure è l’esecutore ad aver mal interpretato la ricetta. In entrambi i casi il risultato potrà dirsi -almeno in parte- fallito e l’esito non sarà del tutto uguale a quello previsto. Con l’unica consolazione che molte delle grandi ricette della storia -dal panettone alla ganache al cioccolato- sono nate per errore.
Dare qualche “chicca” in più
Negli ultimi anni le conoscenze rispetto a tutto ciò che riguarda il cibo e l’alimentazione in genere, si sono molto ampliate, rendendo la cucina sempre più democratica e capace di adeguarsi a gusti ed esigenze diversi.
Se i ricettari delle nonne si limitavano a una serie di prescrizioni lapidarie, volte a tramandare la loro specifica visione di una pietanza, i ricettari moderni sanno essere meno categorici e offrire al lettore la possibilità di adattare il piatto nel modo che più gli è congeniale.
Dunque, coerentemente con l’idea che una ricetta ben scritta sia una ricetta pensata per chi quel cibo dovrà cucinarlo e mangiarlo davvero, un valore aggiunto è quello di suggerire possibili variazioni, sostituzioni di alcuni ingredienti, consigli di conservazione, tips antispreco e così via.
In fondo anche questo è un modo per ricordare che da un lato e dall’altro della pagina ci sono due persone che si stanno scambiando un’esperienza, che stanno costruendo insieme un’emozione legata al cibo, con lo stesso spirito con cui in cucina, la nonna ci legava il grembiule e ci metteva su uno sgabello a impastare gli gnocchi… Solo così il piatto sulla pagina smette di essere solo “cibo di carta” e diventa famiglia.