La torturaI tragici giorni di prigionia di Henri Alleg durante la guerra in Algeria

Negli anni Cinquanta il giornalista francese, allora direttore dell’Alger républicain, venne perseguitato dal regime della Francia imperialista. Nel periodo in cella fu sottoposto a waterboarding, elettroshock, ustioni in ogni parte del corpo. Il libro che racconta quei momenti è un memoir la cui attualità non smette mai di bruciare e riguardarci da vicino

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In questa immensa prigione sovraffollata, dove ogni cella accoglie un dolore, parlare di sé è quasi indecente. Al pianterreno c’è la «divisione» dei condannati a morte. Sono ottanta, le caviglie incatenate, che attendono la grazia o l’esecuzione. Tutti viviamo sul loro ritmo. Non c’è detenuto che non si rivolti la sera sul suo pagliericcio al pensiero che l’alba può essere fatale, che non si addormenti senza la speranza che non succeda nulla. Eppure, è dal loro «braccio» che salgono ogni giorno i canti proibiti, i magnifici canti che nascono sempre dal cuore dei popoli in lotta per la loro libertà.

I torturati? Da molto tempo la parola ci è divenuta familiare, sono rari qui coloro che sono scampati alla tortura. A quelli che arrivano, a coloro cui si può rivolgere la parola, si chiede subito: «Da quanto tempo arrestato? Torturato? I paras1 o i
poliziotti?»

Il mio caso è eccezionale solo per l’eco che ha sollevato, ma non è affatto unico. Ciò che io ho detto nella mia deposizione, ciò che dirò qui, illustra con un solo esempio una pratica normale di questa guerra atroce e sanguinosa.

Sono passati ormai tre mesi dal giorno del mio arresto. Ho incontrato durante questo periodo tanti dolori e tante umiliazioni che non oserei piú parlare di queste giornate e di queste notti di supplizi se non sapessi che il mio discorso può essere utile, che far conoscere la verità è altresí un modo di agevolare l’armistizio e la pace. Per notti intere, durante un mese, ho sentito urlare i torturati, e le loro grida si sono incise per sempre nella mia memoria. Ho visto prigionieri gettati a colpi di manganello da un piano all’altro, resi ebeti dalla tortura e dalle percosse, che non sapevano piú far altro se non mormorare in arabo le prime parole di una vecchia preghiera.

E ho saputo, in seguito, altre cose. Mi hanno detto della «scomparsa» del mio amico Maurice Audin, arrestato ventiquattr’ore prima di me e torturato dalla stessa squadra che poi mi «prese in consegna». Scomparso, come lo sceicco Tebessi, presidente della associazione degli Ulema, come il dottor Cherif Zabar, e tanti altri. A Lodi ho rivisto il mio amico de Milly, impiegato all’ospedale psichiatrico di Blida, anch’egli torturato dai paras, ma con una tecnica nuova: venne denudato e legato a una sedia di metallo nella quale passava la corrente elettrica; porta ancora, su tutte e due le gambe, le profonde cicatrici delle scottature.

Nei corridoi della prigione ho riconosciuto in un «nuovo arrivato» Mohamed Sefta, adel della Mahakma di Algeri (la giustizia musulmana). «Qurantatre giorni nelle mani dei paracadutisti. Scusami, mi fa ancora male parlare; mi hanno bruciato la lingua», e mi fa vedere la lingua a brandelli. Ne ho visti altri: un giovane commerciante, della Casbah, Bualem Bahmed, nel furgone cellulare che ci portava al tribunale militare, mi fece vedere i polpacci coperti di lunghe cicatrici. «Sono stati i paras, con un coltello: avevo dato ospitalità a un membro del Fln».

Dall’altra parte del muro, nel braccio femminile, ci sono delle ragazze di cui nessuno ha parlato: Djamila Bouhired, Elyette Loup, Nassima Hablal, Melika Khene, Lucie Coscas, Colette Grégoire e tante altre: denudate, picchiate, insultate da torturatori sadici, hanno subito anch’esse il supplizio dell’acqua e dell’elettricità. Tutti qui conoscono il martirio di Annick Castel, violentata da un paracadutista e che, credendosi incinta, non pensò piú che a morire.

Tutto ciò, io lo so, l’ho visto, l’ho sentito. Ma chi dirà il resto? È agli «scomparsi» e a quelli che, certi della loro causa, attendono la morte senza paura, è a quanti hanno conosciuto i carnefici e non li hanno temuti, è a tutti coloro che, di fronte all’odio e alla tortura, rispondono con la fiducia nella pace che non può tardare e nell’amicizia dei nostri due popoli, che bisogna pensare leggendo la mia storia; giacché potrebbe essere quella di ciascuno di loro.

Erano le 4 pomeridiane quando il tenente dei paracadutisti Cha…, accompagnato da uno dei suoi uomini e da un poliziotto, arrivò da Audin per prendermi in consegna. La vigilia di quel mercoledí 12 giugno, il mio amico Maurice Audin, assistente alla Facoltà di Scienze di Algeri, era stato arrestato in casa sua e la polizia vi aveva lasciato un ispettore. Fu costui che mi aprí la porta allorquando caddi nel tranello. Avevo tentato, inutilmente, di scappare, ma il poliziotto, rivoltella in pugno, m’aveva raggiunto al primo piano ed eravamo risaliti insieme nell’alloggio. Nervosissimo, l’ispettore, sempre tenendomi d’occhio, aveva telefonato al centro dei paracadutisti per chiedere rinforzi.

Dal momento in cui il tenente entrò nella stanza, compresi ciò che mi attendeva. Tagliato da un enorme berretto, il suo viso, piccolo, rasato accuratamente, triangolare, sorrideva. – Colpo eccellente, – disse, scandendo le sillabe, – si tratta di Henri Alleg, l’ex direttore di «Alger républicain» –. Poi, rivolgendosi a me:
– Chi vi ospita?
– Non ve lo dirò mai!

Un sorriso, un’alzata di spalle, poi, con tono di sicurezza: – Vi prepareremo un piccolo interrogatorio tra poco, che vi basterà. Vi assicuro che parlerete. Mettetegli le manette.

Tenuto per il braccio dal paracadutista, discesi le scale fino alla strada. La macchina del tenente, una Aronde, ci aspettava dall’altro lato della via. Mi fecero prender posto sul sedile posteriore. Il paracadutista mi stava a lato: la canna del suo mitra mi premeva le costole: – Ci sono buoni proiettili qui dentro, per voi, se fate il fesso.

Filavamo verso la città alta. Dopo una breve sosta davanti a una villa (senza dubbio un comando dei paras) dove entrò il solo Cha…, continuammo a salire verso Châteauneuf lungo il boulevard Clemenceau.Finalmente la macchina si fermò vicino alla piazza di El-Biar, davanti a una grande casa in costruzione.

Traversai un cortile ingombro di jeep e di camion militari e arrivai dinanzi alla casa. Salii le scale. Cha… mi precedeva, il paracadutista veniva dietro. Qua e là spuntavano dalla muratura i ferri del cemento armato: la scala non aveva ringhiere; dai soffitti grigi pendevano i fili di un impianto elettrico messo su alla meno peggio. Da un piano all’altro c’era un andirivieni incessante di paracadutisti, che salivano e scendevano, sospingendo dei prigionieri musulmani coi vestiti a brandelli, la barba di parecchi giorni; tutto questo in un alto fragore di stivaloni, di risate, di volgarità e di insulti. Mi trovavo nel «centro di accertamento del sotto-rione della Buzareah». Avrei saputo ben presto come si effettuava questo
«accertamento».

Entrai, dietro a Cha…, in una stanza, molto grande, del terzo, oppure del quarto piano: evidentemente, il «soggiorno» del futuro appartamento. Alcune tavole smontabili; al muro, le fotografie di sospetti ricercati dalla polizia; un telefono da campagna: l’arredamento era tutto qui. Vicino alla finestra, un tenente. Seppi in seguito che si chiamava Ir… Un pezzo d’uomo, con un corpaccione smisurato rispetto al capo, piccolissimo, dagli occhi cisposi, e alla vocetta acuta che ne usciva, una voce un po’ melata e cantilenante, da chierichetto vizioso. –

Vi offriamo una possibilità, – disse Cha…, rivolto a me. – Ecco matita e carta, ci scriverete dove abitate, chi vi ha ospitato durante la vostra clandestinità, chi sono le persone che avete incontrato, le attività da voi svolte.

Il tono restava corretto. Mi avevano tolto le manette. Ripetei per i due tenenti ciò che avevo detto a Cha… durante il viaggio in macchina: – Sono passato alla clandestinità per sfuggire all’arresto, poiché sapevo di essere oggetto di una misura di internamento. Mi occupavo e mi occupo ancora degli interessi del mio giornale. In proposito, ho incontrato a Parigi Guy Mollet e Gérard Jacquet. Non ho nulla da dirvi di piú. Non scriverò nulla e non contate su di me per denunciare coloro che hanno avuto il coraggio di ospitarmi.

Sempre sorridenti e sicuri di sé, i due tenenti si consultarono con un’occhiata. – Credo sia inutile perdere del tempo, – disse Cha…, Ir… assentí. Del resto, era questa anche la mia opinione: se dovevo essere torturato, presto o tardi che differenza c’era? Era meglio, anzi, affrontare il peggio subito.

Cha… andò al telefono: – Preparate una squadra: è per un pezzo grosso. Dite a Lo… di salire –. Pochi istanti dopo, Lo… entrava. Venticinque anni, piccolo, scuro di pelle, il naso camuso, i capelli lucidi di brillantina, la fronte bassa. Mi si avvicinò e disse sorridendo: – Ah! È lui il cliente? Seguitemi –. Scesi d’un piano, entrai questa volta in una stanza piú piccola, a sinistra del corridoio: la cucina del futuro appartamento. Un acquaio, un fornello di ghisa, sormontati da una cappa ancora priva di vetri: soltanto l’ossatura metallica era stata collocata. In fondo, una porta-finestra mascherata con dei ritagli di cartone che oscuravano la stanza.

– Spogliatevi, – disse Lo… e, visto che io non obbedivo, – se non volete, vi si costringerà.

Mentre mi spogliavo, diversi paracadutisti andavano e venivano intorno a me e nel corridoio, curiosi di conoscere il «cliente» di Lo… Uno di essi, un biondino con l’accento di Parigi, infilò la testa nel pannello privo di vetro della porta: – Ma guarda, è un francese! Ha preferito i ratons2 a noi? Servilo per bene, Lo…, mi raccomando!

Lo… stava ora sistemando un asse nero, sporco, umido, imbrattato dei vomiti lasciati dagli altri clienti.

– Forza, allungatevi lí sopra! – Mi distesi sull’asse.

Lo…, con l’aiuto di un altro, mi assicurò i polsi e le caviglie con cinghie di cuoio infisse nel legno. Vedevo Lo… in piedi sopra di me, le gambe divaricate, un piede a ognuno dei lati dell’asse, mani sulle anche, nell’atteggiamento di un conquistatore. Mi fissava, minaccioso, cercando d’intimidirmi come avevano fatto i suoi superiori.

– Sentite, – disse, con accento algerino, – il tenente vi dà il tempo di riflettere. Però, dopo, parlerete. Quando becchiamo un bianco, lo lavoriamo meglio degli arabi. Tutti parlano. E dovrete cantare tutto, non soltanto un pezzo di verità: tutto! Intanto, intorno a me i paracadutisti facevano dello spirito:

– Come mai i tuoi compagni non vengono a liberarti? – Guarda, che cosa fa quello steso là sopra? Della relaxation?

Un altro, piú arcigno: – Non bisognerebbe perdere tempo con dei tipi cosí. Io li farei fuori subito.

Dalla finestra giungeva una corrente d’aria gelida. Nudo, sull’asse umido, cominciai a tremare di freddo. Allora Lo…, con un sorriso: – Avete paura? Volete parlare?

– No, non è paura, è il freddo.
– Fate lo spaccone, eh! Vi passerà la voglia. In capo a un quarto d’ora parlerete.

Restai là, in mezzo ai paras che scherzavano e mi insultavano, senza rispondere, sforzandomi di mantenermi il piú calmo possibile. Vidi ad un tratto entrare nella stanza Cha… Ir… e un capitano.

Alto, elegante e silenzioso, le labbra strette, una lunga cicatrice sulla guancia: il capitano De…

– Allora, avete riflettuto? – Era Cha… che mi rivolgeva la domanda.
– Non ho cambiato idea.
– Va bene, se lo sarà voluto, – e, rivolgendosi questa volta agli altri, aggiunse: – È meglio andare nella
stanza vicina, c’è la luce, si lavorerà meglio.

Quattro paracadutisti presero l’asse su cui giacevo, mi trasportarono di peso nella stanza accanto, dirimpetto alla cucina, e mi posarono sul cemento. Gli ufficiali si sistemarono intorno a me, seduti su degli zaini portati dai loro soldati. – Ah! – disse Cha…, sempre certo del buon esito dell’interrogatorio, – mi ci vuole della carta e un cartone o qualcosa di duro per poterci scrivere –. Qualcuno gli tese una tavoletta che egli posò accanto a sé. Poi, prendendo un magnete dalle mani di Lo…, lo alzò all’altezza dei miei occhi e mi disse, rigirando questo apparecchio già cento volte descritto dai torturati: – Lo conosci, non è vero? Ne hai sentito parlare? Hai persino scritto degli articoli su questo coso!

– Non potete impiegare questi metodi, – risposi. – Ve ne accorgerete. Se mi dovete contestare qualche reato, consegnatemi nelle mani della giustizia: avete ventiquattr’ore di tempo per questo. E non datemi del tu.

Questa frase fu accolta da uno scoppio di risa. Sapevo bene che simili proteste non servivano a nulla, e che in quelle circostanze, invocare il rispetto della legalità davanti a quei bruti era ridicolo; ma volevo fargli vedere che non mi avevano intimorito.

– Avanti, – disse Cha… Un paracadutista mi si sedette sul petto: molto bruno, il labbro superiore che risaliva a triangolo verso il naso, un largo sorriso di bambino che sta per fare una burla… Dovevo in seguito riconoscerlo nell’ufficio del giudice durante un confronto. Era il sergente Ja… Un altro paracadutista (di Orano, a giudicare dall’accento) stava alla mia sinistra, un terzo ai piedi, gli ufficiali attorno. Nella stanza sostavano altri uomini, senza un compito preciso, ma desiderosi d’assistere allo spettacolo.

 

Da La tortura di Henri Alleg (Einaudi), 110 pagine, 11 euro
© 1958 Les Éditions de Minuit, Paris
© 1958 e 2022 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

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