Pare che siano stati i vicini. Anzi no, pare che sia stato il welfare, anche se le ultime notizie danno per certo che siano stati il padre che non sapeva di esserlo, la madre, la sorella, la malattia mentale, il compagno, l’ex marito, lo Stato, anzi no: siamo stati tutti noi.
La verità è che faremmo qualunque cosa pur di non schiantarci contro l’idea che le madri siano esseri umani capaci di ammazzare i figli, saremmo pure capaci di dire che la colpa è nostra invocando un personale ergastolo ostativo.
Le madri mentono, uccidono, abbandonano, lo fanno con le stesse modalità dei padri, ma in quei casi nessuno parla di infermità mentale. Se uccidi un figlio sei malata di mente, ma non tutte le malate di mente uccidono i figli, e dunque mi chiedo: può una donna sana di mente ammazzare la prole?
In Italia abbiamo avuto la madre che ha messo il neonato in lavatrice insieme alla tovaglia piena di briciole, quella che ha soffocato il figlio con un calzino mentre era impegnata a rifiutarsi di scopare in macchina con il padre del bambino perché indisposta, quella che ancora oggi non se lo ricorda, quella che ha finto un rapimento e che ha seppellito la figlia forse ancora viva in una buca, quella che il neonato l’ha insacchettato nella spazzatura, e potrei andare avanti ore e ore.
Alessia Pifferi è un caso a sé: non ha ammazzato la figlia, l’ha lasciata morire. Questa bambina non esisteva, non esistono fotografie, la madre ha fatto sì che la bambina non potesse piangere in modo tale che nessuno potesse salvarla. «Ora la figlia del faraone scese al Nilo per fare il bagno, mentre le sue ancelle passeggiavano lungo la sponda del Nilo. Ella vide il cestello tra i giunchi e mandò la sua schiava a prenderlo. L’aprì e vide il bambino: ecco, il piccolo piangeva». Se Mosè fosse stato sedato con l’En non avrebbe pianto e nessuno avrebbe mai separato il mare e il bene dal male.
Pare anche che nessuno legga mai i giornali, ma sui social nulla può contro l’irresistibile desiderio di dire qual è il punto. Ci sono quelli che continuano a chiedersi dov’era il padre anche se ovunque è scritto che questo padre biologico non sa di esserlo, e chissà se ora lo sa, e se si prova dolore a perdere un figlio che non sapevi di avere. Ci sono quelli che non bisogna paragonare la mamma assassina alle bestie perché è un insulto verso le bestie, tra il forcaiolo e l’animalier. Ci sono le anime belle che dicono di non giudicare questa donna: sarà una donna molto malata, sarà una vittima che va curata, c’è lo stigma, c’è la salute mentale.
Fioccano i post dove le mamme si offrono di dare aiuto a chi si trova in difficoltà, invitano a parlare, perché loro non ci credono che i vicini non sospettassero nulla, alla fine bastava chiedere: «Come stai?»: un giorno poi faremo pace con il tema dei consigli non richiesti, dove se una persona prova a farti una domanda personale o a darti un consiglio è tutto sempre e solo: ma come ti permetti?
Nel 2005 Mary Patrizio uccise suo figlio di 5 mesi in 5 centimetri d’acqua. È l’unica rea confessa in Italia ad aver rilasciato un’intervista, nello specifico a Franca Leosini. Mary ha avuto un’infanzia piuttosto triste: un padre molto amato e una madre malata di nervi che faceva fatica ad alzarsi dal letto. Mary lavorava come panettiera a Monza dove «veniva il maggiordomo di Berlusconi a comprare il pane», si è sposata con il suo primo fidanzato, insieme hanno comprato casa, dopo qualche anno nasce il bambino.
Una vita come tante, la vita di chiunque. Ha avuto un parto molto difficile, un travaglio lunghissimo, dice che in ospedale nessuno l’abbia aiutata. Aveva perso molto sangue, non era in grado di prendersi cura né di sé stessa né di suo figlio. «Io mi sentivo sola e non sapevo perché, avevo una sensazione sulla testa difficile da spiegare». Parla come di una sfera appoggiata sul cranio che le intontiva i pensieri, è una cosa che ripete più volte.
Durante i primi tre mesi la nuova famiglia si trasferisce dai suoceri perché la caldaia era rotta: loro la aiutano in tutto, sono molto amorevoli e per questo volevano che rimanesse lì. «Mi guardavo allo specchio e non mi riconoscevo, stavo male e non capivo perché, piangevo sempre sempre sempre sempre».
Mary chiede aiuto a chiunque, va dalla psicologa della mutua di Casatenovo che le dice che ha la classica depressione post partum, ma insomma signora si faccia forza, poi se sta male ora si figuri quando cresce, faccia un sorriso: «Mi metteva davanti tutti i problemi che il bambino avrebbe avuto a sei mesi, un anno»; Mary dice che fare terapia le faceva più male che bene; a questo punto va da uno psichiatra di Milano che le diagnostica la depressione post partum e che le prescrive dei farmaci. Li prende, ma il marito le dice: «Cosa le prendi a fare le medicine che non ti fanno niente». Mary interrompe immediatamente la terapia.
Stiamo guardando un’intervista a Kitty Genovese. Mary ha sempre avuto paura dei ladri. Una volta si è trovata nel mezzo di una rapina in banca e le hanno puntato dei coltelli alla gola. Era un pensiero fisso, svegliava di notte il marito che scendeva con un bastone, ma non c’era mai stato nessun ladro. Aveva paura che facessero del male a lei e a suo figlio, che rapissero il bambino, che le rubassero l’oro. Mary racconta che sono stati i ladri a legarla e a uccidere suo figlio. Lei non lo chiama mai per nome. Il bambino si chiamava Mirko.
Mary dice a Leosini che vorrebbe ricordare, ma non ci riesce, però le dice cosa c’era nella sfera che le opprimeva la testa: «Io non ho creduto di fare del male a mio figlio, io ho salvato mio figlio. Se non avessi fatto io quello che ho fatto, lo avrebbero fatto i ladrI».
Quando Mary confessa, e confessa perché gli investigatori le dicono che è stata lei a uccidere Mirko e non i ladri, nessuno dei familiari ci crede. Era una madre perfetta. Gli inquirenti le contestano anche la premeditazione, viene condannata a 14 anni e 6 mesi. Mary è stata giudicata capace di intendere e volere.