La traumatica fine del governo Draghi ha suscitato gravi interrogativi sul futuro finanziario ed economico del paese, in particolare per l’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR); ma altri progetti rischiano di restare inattuati, compresa la parte più corposa della riforma promossa dal ministro della Giustizia Marta Cartabia.
Il governo Draghi è caduto proprio un mese dopo il varo della riforma dell’ordinamento giudiziario diviso in quattro parti, alcune delle quali già entrate in vigore, come il procedimento disciplinare, la limitazione delle comunicazioni coi media e la più rigida ripartizione delle carriere di Pm e giudici: da ora in poi sarà possibile un solo passaggio di funzioni in tutto il percorso professionale.
Per capire quanto questa riforma abbia davvero inciso sul mondo della giustizia, basta ricordare quanto sia stata forte la reazione del sindacato delle toghe che ha proclamato uno sciopero, rivelatosi assai deludente e con risultati assai deludenti quanto alla partecipazione, pressoché nulla addirittura negli uffici della Corte di Cassazione con conseguente coda di polemiche tra il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (Anm) Giuseppe Santalucia e i suoi stessi colleghi del Palazzaccio, tacciati di pigrizia e arida indifferenza.
Ebbene c’è ancora una parte significativa di quella riforma ancora da approvare, compreso il progetto di riforma del processo penale. Si tratta di materie oggetto di delega governativa e che sono in via di ultimazione presso una serie di commissioni di giuristi e che dovrebbero terminare l’iter del varo dei relativi decreti delegati entro il prossimo ottobre, quando starà per entrare in carica il nuovo governo e dunque un nuovo ministro.
La delega è abbastanza rigida e non dovrebbe lasciare spazio a clamorose inversioni di marcia, ma qualche dubbio resta, soprattutto riguardo alla delicatezza di alcune innovazioni. Per esempio l’introduzione nel codice di procedura penale della giustizia riparativa, una prassi di confronto tra le vittime e gli autori dei reati, da sola costituisce il più serio tentativo di colpire il giustizialismo forcaiolo mai tentato da un governo per cambiare il sentimento popolare sul tema del recupero sociale dei condannati. Un provvedimento contro il paradigma giustizialista.
Tuttavia il punto più caldo è l’ordinamento giudiziario. Sono ancora in sospeso alcune significative disposizioni come la progressione delle carriere e l’assegnazione degli incarichi direttivi, causa prima del più grave scandalo giudiziario della storia della magistratura italiana.
Si parla di significative novità come ad esempio il riconoscimento del diritto al voto per gli avvocati nei Consigli giudiziari, gli organismi preposti a sancire l’avanzamento di carriera dei magistrati dopo la valutazione della qualità dell’attività svolta nelle varie fasi della professione.
In particolare l’Anm aveva mal digerito la novità del cosiddetto fascicolo del magistrato, una sorta di dossier che racchiude le note più significative del lavoro dei singoli togati. Nulla di particolarmente rivoluzionario se si pensa che è lo stesso magistrato interessato a scegliere da sé, fior da fiore, il materiale del suo lavoro da sottoporre al giudizio dei consigli.
Eppure è stato sufficiente questo vago tentativo di giudizio per suscitare le vivaci proteste dell’Anm che ha denunciato lo «stress da prestazione produttiva» che graverebbe sui magistrati costretti a logiche di efficienza aziendale, nonostante siano ormai leggendari i tempi di durata del processo penale. A tale proposito l’introduzione di un termine di estinzione dei processi (improcedibilità) in appello da solo sembra aver provocato per l’Anm una crisi delle vocazioni verso il ruolo di giudice di secondo grado.
A dimostrare la pretestuosità capziosa di certe dotte critiche togate e la necessità del cambiamento sta l’esito in questi stessi difficili giorni dell’appello del famoso processo Eni-Nigeria che ha visti inquisiti i vertici dell’ente petrolifero di Stato per una supposta e fantasiosa maxi tangente africana.
Tra i testi che la procura di Milano portava a sostegno dell’accusa insieme ad altri improbabili personaggi spiccava l’avvocato Piero Amara di Siracusa, quello della supposta Loggia Ungheria (per cui pende richiesta di archiviazione), che avrebbe dovuto dimostrare addirittura un tentativo di condizionamento delle difese nei confronti del collegio giudicante.
Invece sono stati tutti assolti in primo grado, con una impietosa sentenza di dura critica verso l’operato della una procura milanese. Una volta era considerata mitica, ma le radici di ciò che avviene oggi stanno proprio nella favolistica rappresentazione di un ufficio statale come covo di giustizieri alla Tex Willer.
Come se ciò non bastasse i PM (oggi sotto processo per abuso d’ufficio a Brescia in contemporanea con uno dei padri fondatori di Mani Pulite, Piercamillo Davigo) hanno impugnato l’assoluzione per vedersela definitivamente spazzare via dal proprio procuratore generale.
Questi ha bollato con parole durissime l’operato del suo stesso ufficio definendo l’indagine come un’espressione di «un atteggiamento neocolonialista», perché come «le potenze neocoloniali tracciavano i confini senza sapere cosa c’era sotto», la procura ha «imposto» la propria linea, volendo scegliere «al posto di organi democraticamente eletti». Va aggiunto che degli organi con funzioni particolarmente delicate avrebbero rischiato di vedere decapitati i propri vertici in un momento drammatico dell’economia nazionale con un danno incalcolabile.
Casi come questo sono prova di indubbia sciatteria e disprezzo dei limiti dell’operato di un potere dello Stato. Sarebbe stato utile una valutazione più attenta e penetrante delle attitudini e dello scrupolo professionale del magistrato. Non si può oggi non chiedersi perché certi magistrati, in questa come in altre vicende non sono stati fermati prima anche solo negandogli promozioni e funzioni direttive.
La fine del governo Draghi non farà versare lacrime all’Anm ma è bene riflettere che cosa si rischia di perdere per il progresso di questo paese. Non solo i soldi del PNRR ma un’idea di modernità.