Sospeso tra sogno e incubo, il diritto tecnologico, cioè il «tecnodiritto», si profila all’orizzonte del nostro destino accompagnato dagli algoritmi entrati ormai con forza invadente nella nostra vita. Siamo avvolti nell’«infosfera» descritta dal filosofo Floridi, inseriti in una nuova esistenza in cui la vita trascorre in perenne connessione, incuneati in un’ecologia nuova impregnata da macchine che imparano da sole.
Nel campo del computer la rivoluzione è permanente e assistiamo a una trasformazione senza ritorno, mentre altrove, nei costumi, nei rapporti sociali, nelle regole di condotta, quasi sempre alle rivoluzioni succedono le restaurazioni.
In tale quadro non stupisce che il mondo del diritto parli di Ia, e ne parlerà sempre di più. In effetti anche la giustizia subisce lo «choc della modernità», quel fenomeno ciclico che si verifica quando le innovazioni scientifiche travolgono gli schemi consolidati, incidendo soprattutto sulle variabili classiche dello spazio e del tempo. Oggi come ieri il settore è tallonato dalle tecnologie, ed è in affanno per l’invasione di strumenti tecnici fino a poco tempo prima inconcepibili.
L’«azienda giustizia», cioè quell’apparato statale che bilancia gli interessi nel civile, previene controlla protegge e punisce nel penale, verifica la possibilità e le modalità di utilizzo della tecnologia nelle sue varie articolazioni, e l’Ia è una tra queste. Anche la giustizia si collocherà a pieno titolo all’interno della «società algoritmica» che coinvolge soluzioni tecnologiche tra loro molto differenziate, alcune intuibili, altre ancora indefinite ma già anticipate dalla letteratura e soprattutto da quel serbatoio inesauribile di costruzioni narrative che è la fantascienza.
Philip Dick ne è stato un profeta e la sua intuizione dirompente è stata quella di assegnare alla tecnologia un ruolo decisivo di controllo del territorio e delle persone, e di queste ultime i dati soggettivi “sensibili” e i comportamenti esteriori. Accade così nel racconto Minority Report del 1956, assurto alla notorietà collettiva nel 2002, con la trasposizione cinematografica di Steven Spielberg. Nell’America del 2054 opera l’Agenzia Precrimine, che utilizza le capacità extrasensoriali di tre mutanti per prevedere chi e quando commetterà un crimine. I tre esseri deformi trascorrono la vita rinchiusi in un sotterraneo, collegati a macchine che ne decodificano le visioni-profezie, sulla base delle quali le persone vengono arrestate senza alcun processo.
Può verificarsi che compaiano “universi paralleli”, che le profezie non coincidano tra loro e in questo caso quella divergente dà origine al rapporto di minoranza. I risultati ottenuti dalla Precrimine sono strabilianti: i crimini si riducono di circa il 99,8 percento anche perché, nel generale clima di paura, nessuno osa nemmeno pensare a commettere un reato.
Il capo dell’Agenzia, Anderton, rischia di essere stritolato dalla sua stessa struttura, manipolata da avversari politici. Finirà in esilio, e da lontano ammonirà sulle possibili falle del sistema e sulla possibilità che la manomissione possa ripetersi.
Il quadro generale è chiaro: per ovviare alla paranoia della sicurezza non si va per il sottile e occorre servirsi della tecnologia a disposizione. Il nemico può essere chiunque e trovarsi ovunque, la paura moltiplica le persone da temere e solo la punizione può consentire risposte incisive. Nel racconto la giurisdizione si eclissa, l’avvocato scompare, superfluo in quanto il processo è una macchina che di umano non ha nulla, dovendo colpire senza incertezze ma anche senza garanzie.
Alle società disciplinari del XVIII e XIX secolo, caratterizzate dai luoghi di reclusione, subentrano le più fluide società di controllo, dove gli individui sono ridotti a numeri, dove il sorvegliante e il sorvegliato non esistono più come entità perché sorvegliare diventa calcolare, vedere sotto e dentro (sous-veillance).
Con la tecnologia estremizzata la sorveglianza dilaga e capta le intenzioni delle persone in modo da intervenire drasticamente. Del resto la geometria penale intuita da Dick è risultata meno fantasiosa del previsto di fronte ad alcune normative statunitensi nella lotta al terrorismo internazionale. Il riferimento scontato è al Patriot Act del 2001, l’ordine militare presidenziale cui sono seguite discipline specifiche e istruzioni ministeriali. I processi sono segreti, l’intento è trasformare gli accusati, quali «nemici combattenti», in strumenti informativi nella lotta al terrorismo. Di qui l’irrilevanza di accertare la fondatezza o meno dei fatti contestati. Molti articoli sono stati aboliti dalla Corte suprema, ma, a dispetto di ogni programma elettorale, sono rimasti in vigore i 14 permanenti.
Anche la letteratura distopica ha dato un contributo, seppur blando, al settore giudiziario. I pochi che se ne sono occupati sono per lo piú noti in altri settori, qui divenuti amateurs forse per capriccio, forse per desiderio, forse per divertimento, forse per fascinazione verso temi ineludibili quali il male che opprime la società, la necessità di reagire e come farlo.
Uno di questi, sprofondato oggi nell’ombra, è stato Giovanni Papini con Il libro nero del 1951, un diario che vuole descrivere le tendenze più sconcertanti di un futuro dominato dalla scienza, per lui malevola. In particolare il prodotto è la macchina «dominatrice e liberatrice», costruita anche per i bisogni della giustizia e dunque per la decisione nel processo.
Si tratta del Tribunale elettronico, apparecchio con una facciata di sette metri, montato su una parete in fondo all’aula. Giudici, avvocati e cancellieri non occupano i posti consueti, ma siedono tra il pubblico. Sono semplici spettatori perché la macchina non ha bisogno di loro, essendo eccezionalmente sicura e infallibile. L’enorme cervello si serve soltanto di un giovane meccanico che conosce i segreti delle cellule fotoelettriche e dei pulsanti di comando che forniranno la risposta processuale. Unico ricordo del passato è una bilancia di bronzo che sormonta il metallico cervello giuridico.
In queste pagine si anticipa un futuro rivoluzionario nel mondo del diritto, su cui altri ritorneranno, quello del «giudice robot», per usare il termine coniato nel 1920 da Karel Čapek in R.U.R.: non a caso è del 2019 la pubblicazione di una raccolta di saggi intitolata Decisione robotica.
E allora proviamo ad avanzare qualche riflessione sul nuovo volto della modernità giudiziaria di fronte agli algoritmi, e sulle sfide che attendono gli attori sulla scena, tra questi gli avvocati.
da “L’avvocato nel futuro”, di Fulvio Gianaria, Alberto Mittone, Einaudi, 136 pagine, 12 euro