Questa è una storia elettorale, ma tanto per cambiare la prenderò un po’ larga. Questa è una storia che attiene alle liste elettorali che i partiti stanno compilando, lasciando inevitabilmente fuori gente, gente che ha votato il taglio dei parlamentari mai pensando che la parlamentare tagliata sarebbe stata proprio lei.
Se avete letto i giornali in questi giorni (se avete letto i siti: l’ultima usanza novecentesca è la chiusura ferragostana di quasi tutte le redazioni e di tutte le edicole) già saprete le meraviglie di Monica Cirinnà, che prima dice «senza di me mi pare complicato» rispetto all’avere in programma il matrimonio egualitario (quello che la sua legge non è riuscita a ottenere), e poi che il collegio che le hanno offerto non è idoneo ai suoi temi. L’elettorato di lì non la vuole: cambiamolo, questo elettorato.
Ma non è di Monica Cirinnà che rifà l’Anna Oxa dell’83 e domanda «senza di me cosa si fa nei pomeriggi troppo blu», che voglio raccontarvi oggi. Anche se ci tengo a precisare che ritengo la Cirinnà una grande risorsa per l’intrattenimento del paese e voglio sperare che Maria De Filippi – ormai l’unico serio stato sociale che ci sia – se ne faccia carico.
Oggi voglio parlarvi d’una rubrica di giornale. Non quella che state leggendo, un’altra. Lo so, non è di ottimo gusto parlare di chi fa più o meno le stesse cose mie, e per arginare questa volgare scelta non farò nomi: non è mica la storia di questa tizia, è la storia d’un archetipo.
La rubrica di cui parliamo comincia molti anni fa, sull’inserto d’un quotidiano. È un rubrica a tema, che è un errore che non bisognerebbe fare mai: qualsiasi rubrica in cui tu non possa commentare una qualsiasi cosa che ti ha colpito ma sia costretta a parlare d’un settore è destinata ad avere il respiro corto e a finire le idee prestissimo. Ciononostante, la rubrica continua per molto, moltissimo tempo.
Finché quel giornale cambia direttore, e quello nuovo come prima cosa chiude la rubrica. Dopo dodici anni. La tenutaria della rubrica ha un altro lavoro, non farà per questo la fame. Una volta avrebbe detto grazie, chi me lo doveva dire che duravo dodici anni, vado. Oggi, ella ha un Instagram.
Su quell’Instagram, ella passivoaggressivamente attende la vigilia del primo numero senza il suo intervento, che per i tempi di chiusura degli inserti dei quotidiani significa che sono tre settimane che la rubrichista è stata congedata, e poi racconta su Instagram di essere turbata, di non sapere se nei prossimi numeri la rubrica tornerà, di esserci rimasta male per il silenzio, mica perché non è più columnist (è tipo quelle del ghosting che vogliono una lunga spiegazione del perché non le vuoi più vedere neanche dipinte).
Ovviamente sul pubblico vittimista la modalità funziona, e arrivano moltissimi commenti indignati che promettono di non comprare mai più il giornale (che plausibilmente non hanno mai comprato in vita loro). Lei li rilancia tutti e, invece di sedare le folle, risponde – a qualcuno dubbioso che i commenti su Instagram cambino qualcosa – «mai sottovalutare il potere dei lettori».
Sicuramente di loro iniziativa, i lettori iniziano anche a mandare mail al quotidiano, e a quel punto scatta il panico: i giornali di carta sono terrorizzati dai social, non hanno le prove che siano rappresentativi di qualcosa ma nel dubbio se la fanno sotto, e se questi trenta Vongola75 che dicono che non ci leggeranno più sono solo un campione di mercato, e se andiamo falliti per colpa di questa che nessuno di noi aveva mai letto ma qualcuno là fuori evidentemente guarda le sue instastorie? Tra chi commenta Instagram e chi decide i giornali, è una gara a chi è più boccalone.
Ridarle dopo un mese la rubrica pare troppo una resa, ma una soluzione si trova: facciamole un contratto da editorialista, è evidentemente qualificatissima. Ovviamente la signora presenterà agli installocchi il suo primo editoriale sul quotidiano con lo stesso sbattimento di occhioni e passivoaggressivismo della fine della rubrica sull’allegato: una telefonata che le è arrivata quando mai se lo sarebbe aspettato, mentre la marmotta incartava il cioccolato.
Quindi, quando l’altro giorno una deputata ha pubblicato su Instagram un articolo dal cui titolo diceva di aver appreso che stavano pensando di non ricandidarla, e subito è cominciata la tempesta di commenti indignati, con tutto quel che hai fatto per questo e quell’altro tema di cui importa solo a quelli di Instagram, come possono non ricandidarti, proprio tu che sei il cancellettismo incarnato, vogliono forse perdere tutti i nostri voti che non avrebbero avuto comunque – ecco, quando ho visto questo numero da circo di cui ormai conoscevo lo svolgimento, ho pensato: ci siamo, arriva la copia del precedente riassunto, ormai le donne ottengono qualcosa solo fingendosi Alice che nulla sa di ciò che la circonda e frignando presso i loro follower.
E invece i follower hanno commentato i post del partito con indignazione, lo staff della deputata ha rilanciato le indignazioni, tutto si è svolto come da copione circense, me poi sono uscite le liste e, nonostante cancelletti e proteste, la deputata non era stata ricandidata.
Ed è stato in quel momento che ho iniziato a interrogarmi: è che, per quanto i partiti sembrino ormai tra le più fragili manifestazioni dell’ecosistema, sono comunque meno allo sbando dei giornali; o è che i seggi sono un numero finito, diversamente dagli editoriali, e ci vuol ben altro che il frigno di Instagram perché te ne ceda uno?