Le settantamila persone che sabato hanno sfilato a Praga per protestare contro i rincari delle bollette, ma anche contro la Nato, l’Unione europea e l’Organizzazione mondiale della Sanità, sono parte di un sommovimento che ci riguarda molto da vicino. Le assonanze tra Repubblica Ceca e Repubblica italiana non stanno solo negli slogan gridati in piazza San Venceslao, come l’inequivocabile «prima i cechi». C’è un’analogia strutturale, a partire dalla singolare ma non inedita commistione di partiti comunisti e movimenti di estrema destra, slogan ultranazionalisti e cospirazionismi no vax: un fascio rossobruno che tiene insieme l’antiamericanismo e il filoputinismo “di sinistra” con l’ostilità ai profughi (specialmente ucraini) tipica della destra, la paura della guerra con l’angoscia per una condizione economica improvvisamente destabilizzata dall’impennata dei costi dell’energia. Un problema che già aveva ispirato un movimento molto simile come quello dei gilet gialli.
È la stessa miscela che in Italia ha alimentato il trionfo populista alle elezioni del 2018, e che aveva cementato il patto di governo gialloverde tra Lega e Movimento 5 stelle. Il rapido fallimento di quell’esperienza e le successive evoluzioni politico-parlamentari dei grillini prima (con il secondo governo Conte) e dei leghisti poi (con il governo Draghi) ci hanno forse indotto a sottovalutare la portata e la resistenza del fenomeno, testimoniata oggi dal proliferare di liste anti-euro, anti-Ue e anti-Nato, da Italexit di Gianluigi Paragone a Italia sovrana e popolare di Marco Rizzo e Antonio Ingroia.
D’altra parte, la prova più solida della persistenza di tali orientamenti nell’opinione pubblica è data proprio dalla traiettoria circolare compiuta da Lega e Movimento 5 stelle, che all’avvicinarsi delle elezioni sono tornati progressivamente sulle posizioni che avevano all’inizio della legislatura.
Particolarmente significativo è il percorso dei cinquestelle di Giuseppe Conte, che solo così, con la rottura sul governo Draghi e con il sostanziale ripudio di tutti i simboli della loro presunta evoluzione, dallo pseudo-europeismo allo pseudo-atlantismo, sembrano avere invertito il declino elettorale, almeno nei sondaggi (una tendenza che dalle politiche del 2018 a oggi li vedeva praticamente dimezzare i consensi a ogni tornata). In attesa dell’endorsement di Jean-Luc Mélenchon – che sembra però preferirgli Luigi de Magistris, a capo di un’altra lista non lontana da suggestioni rossobrune – Conte ha ricevuto quello, oggi sicuramente meno gradito, di Donald Trump (ed è già il secondo). A riprova di come il leader dei cinquestelle, con buona pace di Nicola Zingaretti e del Pd, sia sempre il punto di riferimento fortissimo di tutti i populisti. Come confermano da ultimissimo le sue parole di ieri su Vladimir Putin, del quale non si dovrebbe dire «che non vuole la pace».
La tragedia è che nel Partito democratico vecchi capicorrente e giovani candidati non nascondono minimamente l’intenzione di riaprire il dialogo con Conte un minuto dopo il voto, anzi lo ripetono in modo esplicito a ogni occasione. Una posizione del resto in linea con i continui autodafè di Enrico Letta, che passa gran parte della campagna elettorale, pensando di far dispetto a Matteo Renzi, tuonando contro leggi varate dal suo stesso partito, dal Rosatellum al Jobs Act (votate da tutti quelli che oggi le contestano assieme a lui) e prendendosela addirittura con il «blairismo». Come se Letta e tutti gli altri campioni di questa assai tardiva crociata, ai tempi di Tony Blair, fossero stati a combattere nella selva Lacandona al fianco del subcomandante Marcos, anziché in parlamento e nei convegni a ripetere che la terza via era un modello da imitare.
La verità è che a queste elezioni l’unica posizione politica che sulla scheda non sarà presente è proprio quella della sinistra riformista. I suoi ultimi reduci sono finiti, da un lato, con Mara Carfagna e Mariastella Gelmini, all’inseguimento dei resti di Forza Italia, dall’altro con il Pd di Letta, alleato di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, ad attendere sospirando il ritorno di Conte. Anche per questo la manifestazione di Praga appare come un’anticipazione di un nostro futuro possibile, che solo un cambio radicale di rotta nel Partito democratico, forse, potrà evitare (ma al punto in cui siamo sarebbe già molto se smettesse di assecondarlo).