Se le cose andranno come dicono più o meno tutti i sondaggi, il Partito democratico perderà le elezioni, e forse anche malamente. Il partito di Enrico Letta si salverà se otterrà una percentuale sufficiente superiore a quella del peggior risultato di sempre (2018), quando si fermò al il 18,7% alla Camera e al 19,1% al Senato. Altrimenti, dal 20 in giù, tutto sarà in discussione, ben oltre la segreteria di Letta.
La domanda circola, a bassa voce: con la vittoria della destra e con Fratelli d’Italia primo partito, che cosa potrebbe succedere al Nazareno all’indomani del voto? La risposta che viene più spontanea è quella di un cambio alla segreteria del partito, un classico andato in scena con Walter Veltroni, Pier Luigi Bersani, Matteo Renzi, dunque diventato un automatismo. Per di più Letta non ha vinto un congresso ma sta lì da salvatore della Patria: «Non sono tornato per farvi perdere», disse appena insediatosi alla guida del Pd con un discorso che faceva intravedere un nuovo corso, più aperto di quello del predecessore Nicola Zingaretti, all’epoca imbullonato nella strampalata alleanza strategica con Giuseppe Conte.
Ma se la patria poi non la salvasse, la sua poltrona prenderebbe a scricchiolare un minuto dopo il primo exit poll. Se i precedenti hanno un senso, il segretario potrebbe dimettersi più o meno spontaneamente e il Pd andrebbe a un congresso ravvicinato magari dopo una reggenza per far passà ’a nuttata. Però, se il risultato fosse non catastrofico, in qualche modo difendibile, le cose si metterebbero in modo totalmente diverso (ed è ovviamente quello in cui Letta spera mentre macina chilometri su chilometri), consentendogli al numero di restare al suo posto fino a quando il congresso non deciderà il da farsi una volta per tutte.
In questo senso non è privo di interesse quanto dichiarato dai due maggiorenti del partito, Dario Franceschini e Andrea Orlando, che in questi giorni hanno assicurato che la segreteria di «Enrico» – come ha detto Franceschini alla Stampa – «non vacillerà comunque». Una finta? Può essere. Ma c’è anche una lettura diversa di questa protezione preventiva del segretario.
I due big del Pd infatti avrebbero qualche difficoltà a sostenere che l’insuccesso sarebbe colpa del solo Letta: e loro dov’erano? Chi potrebbe dirsi innocente rispetto alla gestione del partito di questi anni e alla impostazione, che pare fallimentare, della campagna elettorale?
Salvare Letta, per i due capi corrente, vorrebbe dire salvare se stessi evitando che il leader li trascini con sé nella caduta e contando sul fatto di non avere un’opposizione interna, dato che quella che avrebbe potuto essere tale, Base riformista, in parte si è sempre schierata con il leader e in parte è uscita indebolita nella partita sulle liste elettorali.
Con una sconfitta in qualche modo gestibile, cioè con una percentuale non tragica, Letta potrebbe quindi rinnovare un patto interno sulla base di quella che in gergo si definisce una maggiore collegialità e mettere sul tavolo la proposta di un congresso con tempi non esattamente strettissimi. Ma soprattutto l’obiettivo di una manovra dorotea di questo tipo sarebbe quello di scongiurare l’ascesa al Nazareno di Stefano Bonaccini, sospettato dagli altri di voler restaurare quel po’ di riformismo pragmatico e autonomo che ancora circola in qualche arteria del Pd e che potrebbe in qualche modo incrociarsi con un Terzo Polo che fosse uscito incoraggiato dalle urne.
C’è naturalmente da chiedersi se questo sia ancora il tempo degli accordicchi tra tre persone a caccia della propria sopravvivenza politica e se sia il caso di sopire e troncare come all’epoca della tv in bianco e nero.
Come reagirebbe la base? Tutto dipende, come detto, da come va a finire con la percentuale ottenuta. Perché non si può escludere nemmeno lo scenario della tempesta perfetta, con il gruppo dirigente che come nel film accade a George Clooney non riesce a salire sull’altissima onda montante e viene sommerso.
Se le proporzioni della sconfitta dovessero assumere proporzioni drammatiche – diciamo sotto il 20 per cento – non è da escludere che a quel punto a venire messa in causa sarebbe l’esistenza stessa del Pd, non solo come brand, ma come soggetto politico unitario in grado di tenere assieme socialdemocratici, filogrillini, ex renziani e quant’altro, un partito sconfitto per due elezioni d seguito che – ha scritto ieri Federico Geremicca – «somiglia sempre più a quell’amalgama non riuscito che qualcuno (D’Alema, ndr) lamentava già anni fa».
Su questa base di analisi tragica per chi ha creduto nel progetto, ci sarà chi (Bettini, Orlando, Provenzano eccetera) potrebbe lavorare per un nuovo soggetto politico più definitivamente spostato a sinistra magari federato o addirittura fuso con quel M5s che sembra invece resistere al naufragio, un “post-Pd” che potrebbe liberare molti esponenti in direzione contraria: una ennesima spaccatura tra massimalisti e riformisti in versione Ventunesimo secolo.
Uno scenario che spazzerebbe via la breve storia del Pd, altro che la segreteria di Enrico Letta.