L’ossessioneIl Pd non sa che cosa fare da grande, ma intanto discute le ragioni della sconfitta del 2018

Una direzione del partito lunga dieci ore all’insegna del «chi siamo cosa vogliamo» e delle ragioni della sconfitta di cinque anni fa

Photo by Arnaud STECKLE on Unsplash

A fari spenti nella notte. L’attenuante è che il compito era improbo, ma dalla Direzione di ieri il Partito democratico esce senza un’idea chiara su come risalire la china dopo una sconfitta politica senza precedenti visto che è accompagnata dall’ingresso dei post-fascisti a palazzo Chigi ma che in fondo – ha detto sorprendentemente Enrico Letta – non è stata «catastrofica».

Fossimo negli anni Settanta sarebbe stata un’assemblea all’insegna del «chi siamo cosa vogliamo», quasi dieci ore, decine di interventi, giovani e meno giovani, uomini e donne, anziani dirigenti e nuove promesse si sono alternati per dire più o meno le stesse cose, molta autocritica ma nessuno che si sia messo in discussione e forse proprio perché la lettura è che il voto non è stata una catastrofe, «tranne FdI gli altri sono andati peggio»: ma allora perché fate un congresso?

Nessuno si dimette tranne, com’è noto, il povero Enrico Letta – gestirà questa fase e poi se ne andrà – che ha svolto una relazione che almeno ha fissato il congresso a marzo contro chi voleva tirarla in lungo (ci ha provato ieri Luigi Zanda).

Il fantasma di Stefano Bonaccini non è stato evocato (lui se n’è andato via presto), come se tutti fossero stati d’accordo nell’eludere la questione della leadership, tranne una polemica Paola De Micheli che ha confermato la sua candidatura, d’altra parte un refrain che è risuonato molto è che il problema non è di nomi ma di identità, come se nel XXI secolo le due cose fossero separabili.

Molto successo ha avuto anche il ripudio della proposto di scioglimento del partito (da queste parti odiano Calenda), ma la verità è che ha dominato una schizofrenia di fondo, che poi è “il” problema del Partito democratico: da una parte l’orgogliosa rivendicazione della propria esistenza, dall’altra un’insistita autoflagellazione.

«Congresso costituente», ha detto Letta e poi tutti quanti, con annessa rilevante ma al tempo stesso sfuggente autocritica sulle correnti, sul governismo, sulla lontananza dai più deboli, sfuggente perché non accompagnata dai rimedi possibili, da indicazioni sul “che fare” al di là della scontata volontà di un’opposizione dura al nascente governo della destra.

Ci si è insomma come fatto coraggio l’un l’altro in un consesso in cui non mancano odii e dissapori (pure la polemica di Goffredo Bettini sull’ordine degli interventi deciso dalla presidente Valentina Cuppo), è tornato persino l’occhettiano “zoccolo duro”, si è disegnato un insieme di problemi reali ma senza individuare un punto forte e unitario, ci si è avvicinato Matteo Orfini quando ha detto che «una parte del gruppo dirigente non crede più alle ambizioni per le quali abbiamo fatto il Pd», ormai vissuto come «difensore dello status quo», che è poi la ragione per cui «nessuno ci ha votato con felicità».

Parecchia autoflagellazione su quello che è diventata la vita reale del partito e contro il correntismo, Peppe Provenzano ha alluso persino a «dossieraggi», le donne infuriate per le liste (colpa anche loro), ogni tanto frecciatine sul passato che non passa, quello di Renzi.

Ad Andrea Orlando va dato atto di essere entrato nel merito, in sostanza ha proposto la questione della «critica al mercato» e di fatto incarnando, forse come possibile candidato anti-Bonaccini, una prospettiva neosocialista: almeno è un punto di chiarezza che insieme a un certo spostamento “pacifista” dà la sensazione di uno spostamento a sinistra del partito.

Dentro una discussione affabulatoria, dalla quale è stata rimossa con la solita solfa che “il problema non è questo”, la questione delle alleanze, che non è più un giochino elettorale ma la scelta di campo tra Mélenchon e Macron (paragone che non piace a Gianni Cuperlo), cioè tra un partito testimone del malessere sociale o forza riformatrice di governo, e questa vaghezza sulla famosa “identità” aiuta Conte e Calenda.

E proprio sul governo c’è stata una cosa sorprendente, la critica del governismo che è diventata autocritica per essere stati lunghi anni al governo, come se la scelta di partecipare al Conte 2 fosse stata dettata dagli dèi: questa rischia di essere una lettura giustificatoria della sconfitta oltre che la premessa per l’abbandono di una aspirazione al governo che è esattamente la ragione di fondo della nascita del Partito democratico, e tuttavia – un po’ intempestivamente – Letta ha annunciato che quando il governo Meloni cadrà «chiederemo elezioni anticipate», il che suona bene ma come si fa dirlo oggi?

Alla fine tutti tranne uno d’accordo sulla relazione del segretario: nel fumo delle parole e nell’ansia di un futuro incerto si andrà ad un congresso ça va sans dire “aperto”, qualunque cosa significhi, e poi alla sfida delle primarie. Dice la giovane Giuditta Pini: «Sarà un congresso autoreferenziale». A fari spenti nella notte.

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