C’è da sperare che Giorgia Meloni si dimostri all’altezza della sfida che l’attende, ma non è razionale confidare che questo possa miracolosamente avvenire senza riallineare le parole e le cose, i pensieri e le azioni e senza cambiare nulla nelle mappe politiche e concettuali che hanno orientato la nuova commander in chief del sovranismo italiano a un successo elettorale clamoroso, ma che di certo non sono in grado di guidarla nella sfida del governo.
Salutare con ottimismo o addirittura con entusiasmo la sua cautela nel minacciare sfracelli in Ue, dopo avere promesso in campagna elettorale che, con la sua vittoria, la pacchia a Bruxelles sarebbe finita, è davvero accontentarsi di poco. E vedere chissà quali novità nel suo barcamenarsi tra un colpo al cerchio sovranista e uno alla botte europeista, come ha fatto nel suo prudente intervento di investitura a Coldiretti, non significa solo condonarle contraddizioni evidenti, ma anche nascondersi che queste emergeranno prestissimo su qualunque dossier il nuovo esecutivo sarà chiamato ad affrontare.
La diversità personali, stilistiche e caratteriali di Meloni rispetto a Matteo Salvini e a Silvio Berlusconi non garantiscono alcuna sostanziale diversità rispetto a quello che, dopo il trauma del 2011 (l’Italia che falliva mentre i violini di corte suonavano l’allegro motivetto dei ristoranti pieni), è diventato il racconto unificante della destra italiana e il fattore della sua completa omologazione sovranista.
Questo pensiero è l’espressione della duplice mitologia cospiratoria di un’Italia perdente, perché svenduta, depredata, perché asservita, dipendente, perché schiava di decisioni prese sopra la sua testa e di un’Europa concepita come un sistema di dominio economico e di colonizzazione politico-culturale.
Quello italiano, come tutti i sovranismi contemporanei, è un ideale essenzialmente vittimistico, ma la sua istanza politica non è affatto indipendentistica, bensì parassitaria. I britannici hanno fatto una cosa per cui ci si potrà, dentro e fuori dal Regno Unito, disperare o sorprendere per i prossimi decenni, ma hanno concluso che per loro era meglio star fuori dall’Ue e sono usciti.
I sovranisti italiani sono di tutt’altra specie. A parte il povero Paragone e i suoi seguaci, nessuno di loro ha mai voluto davvero l’Italexit o l’uscita dall’Euro, ma si è sempre illuso di potere andare a Bruxelles minacciando l’omicidio suicidio – il suicidio dell’Italia e l’omicidio dell’Ue – per strappare condizioni particolari di vantaggio o doverosi indennizzi per i torti subiti.
Lasciamo da parte i Cinquestelle, che hanno interpretato questo medesimo copione con ancora più leggerezza e irresponsabilità, senza avere neppure idea di cosa stessero facendo e di quali conseguenze ne venissero. Ma per rimanere al perimetro della destra italiana, dal 2011 in poi, a parte alcune eccezioni individuali con l’andare del tempo sempre più marginalizzate e impercettibili, nessun partito e nessun politico della destra italiana ha più messo in discussione questa logica e retorica recriminatoria.
Su questa base, ad esempio, la destra italiana è stata rumorosamente contraria – Giorgia Meloni compresa – alle sanzioni europee contro la Russia dopo l’invasione del Donbas e l’annessione della Crimea del 2014, lamentando danni incalcolabili per la nostra economia. Ovviamente, non era affatto vero che l’Italia fosse il Paese europeo esportatore più colpito dalle contro-sanzioni di Mosca, ma il pretesto era comunque ghiotto per denunciare lo scandalo dell’Italia defraudata.
Il sovranismo dell’Italia è a misura del suo meridionalismo partitocratico e post partitocratico, peraltro egemone in modo trasversale a destra come a sinistra. Giorgia Meloni non rappresenta un’alternativa, ma l’ultima usufruttuaria di questa narrazione consolatoria, essendo il precedente, Salvini, saltato rapidamente proprio per non essere riuscito, con il promesso abracadabra, a realizzare politiche davvero, diciamo così, consolanti.
Ciò che i sovranisti chiedono a Bruxelles e ai Paesi Ue è una sorta di reddito di euro-cittadinanza, presentato non come strumento di promozione ed emancipazione sociale, ma come rendita garantita dall’appartenenza alla famiglia europea e come risarcimento dai danni patiti da parte dell’Europa “sbagliata”.
Il fatto che l’Ue abbia reagito alla crisi del Covid e poi della guerra con un’unità e una flessibilità inaspettata dai sovranisti, ma prevista dagli europeisti impegnati da anni a smontare le mitologie cospiratorie contro Bruxelles, anziché diventare un fattore di resipiscenza, è diventato il sogno malato che un’altra Europa è possibile. Altra da quella che ha funzionato, e uguale a quella che non funziona e di cui i sovranisti continuano a propagandare, ovvero il modello confederale e intergovernativo con gli interessi nazionali che divengono, da materia di discussione, poteri di veto.
Prima delle elezioni Peppino Calderisi aveva fatto giustamente notare come ci fosse una dissimulazione disonesta nelle tesi di Giorgia Meloni, che da una parte denuncia l’incapacità dell’Europa di decidere su temi fondamentali, come quello dell’energia, e dall’altra propone di universalizzare in sede europea il sistema dell’ognun per sé, che implica l’impossibilità di decisioni significative contro l’opinione degli stati più importanti.
È esattamente il principio che ha portato allo stallo sul tetto al prezzo del gas, che ha raggiunto un numero di Paesi favorevoli vicinissimo alla maggioranza qualificata, ma trova la Commissione bloccata dai veti tedeschi e olandesi.
Per precisione, occorre aggiungere che la scelta di Berlino di sussidiare a debito per 200 miliardi in due anni le bollette del gas di famiglie e imprese ha la stessa logica dei 60 miliardi di sussidi erogati finora (non in deficit) dal Governo italiano e degli altri che autorevoli esponenti della destra italiana chiedono arrivino in qualche modo da Bruxelles, cornucopia dell’abbondanza. Tetto europeo al prezzo del gas e fondi europei per pagare le bollette. What else?
La credibilità della critica meloniana alla decisione tedesca non è affatto uguale a quella di Mario Draghi, anche se apparentemente sembra la medesima.
Peraltro, è la Meloni stessa a scongiurare un’eccessiva identificazione con quello che fino a pochi mesi fa avrebbe liquidato come il campione dell’Europa della burocrazia e delle banche. «Leggo tante cose: la Meloni è diventata draghiana. Io penso che persone normali che cercano di organizzare una transizione ordinata nel rispetto delle istituzioni facciano una cosa normale, non è che si fa un inciucio».
Infatti, l’accusa di alterare il funzionamento del mercato interno di un bene essenziale, usando come leva la ben maggiore solidità del bilancio tedesco e di accettare che il gas diventi fatalmente ragione di divisione e di distorsione nelle relazioni politiche ed economiche tra gli Stati membri, può essere credibilmente avanzata da chi coerentemente, da decenni, proclama e realizza il suo whatever it takes per salvaguardare l’unità europea, non da chi si fa vanto e ragione di identità di derogare, cioè violare, pure le regole comunitarie esistenti su taxisti e balneari, facendo spallucce delle sentenze delle giurisdizioni nazionali ed europee.
Inoltre, bisogna anche ammettere che la difficoltà di concordare soluzioni comuni in Europa, che potrebbero portare alcuni Stati a pagare il gas di più di quanto farebbero da soli e di averne in quantità insufficienti, è anche il riflesso della irresponsabilità dei Paesi che negli anni, per complicità o stupidità, hanno fatto esattamente quello che Putin dettava loro, senza avere, come i tedeschi, risorse sufficienti per rimediare attingendo al bilancio interno. Anche su questo tema la destra italiana si è disciplinatamente schierata dalla parte sbagliata, cioè putiniana, della storia, pure sposando i referendum No Triv di Verdi e grillini.
Dunque, alla fine, l’ennesima accusa alla Germania da parte della destra italiana non è l’indice di una possibile e futuribile conversione europeista, ma un esempio da manuale del tradizionale chiagni e fotti sovranista.