«Ho appena parlato con il presidente della Repubblica Popolare di Cina Xi Jinping. Abbiamo avuto un’aperta e candida conversazione sulle nostre intenzioni e sulle nostre priorità. […] Competeremo vigorosamente, ma non cerco il conflitto. Voglio gestire responsabilmente questa competizione». Segnali di distensione quelli del presidente degli Stati Uniti Joe Biden, che ha pronunciato queste parole al termine dell’incontro di quasi tre ore con il suo omologo cinese, tenutosi a margine del G20 di Bali. Tra i temi affrontati, oltre a Taiwan e la guerra in Ucraina, anche i diritti umani, con riferimento al Tibet, lo Xinjiang e Hong Kong, la cooperazione su sfide globali come il cambiamento climatico, la sicurezza sanitaria e alimentare, e la Corea del Nord.
Il meeting di oggi è il primo avvenuto di persona da quando entrambi sono i leader dei rispettivi Paesi. Sia Xi che Biden avevano manifestato, prima del suo inizio, la volontà condivisa di voler recuperare una relazione bilaterale crollata al punto più basso da almeno mezzo secolo. «Attendo con ansia di lavorare con lei, signor presidente», aveva detto il leader cinese a Joe Biden all’inizio dell’incontro, «per riportare le relazioni tra Cina e Stati Uniti sulla strada della salute e dello sviluppo stabile, a beneficio delle nostre due nazioni e del mondo intero».
Il momento è cruciale, quindi, anche alla luce delle sfide domestiche che entrambi i capi di Stato sono chiamati ad affrontare. Nonostante un inaspettato risultato elettorale positivo alle elezioni di midterm, che ha portato i Democratici a mantenere il controllo del Senato, vi è ancora la possibilità per i Repubblicani di raggiungere la maggioranza nell’altro ramo del Congresso. Che significa un rafforzamento dell’opposizione alle scelte della sua amministrazione, tanto al suo interno quanto sulle questioni estere, non ultimo il sostegno americano all’Ucraina contro la Russia.
Per quanto riguarda Xi, fresco della terza nomina consecutiva a segretario generale del Partito Comunista Cinese, incombono su di lui le questioni economiche conseguenti alla sua politica “zero Covid”, oltre a quelle legate al confronto commerciale con gli Stati Uniti: Biden ha infatti inasprito le sanzioni attuate dal suo predecessore Donald Trump, che oggi riguardano trecentocinquanta miliardi di beni cinesi, ponendo addirittura un divieto alle esportazioni di semiconduttori avanzati verso il Paese.
Entrambi i lati del Pacifico potrebbero beneficiare di un periodo di distensione e di costruzione di percorsi comuni per affrontare i problemi globali, senza eliminare i propri sforzi competitivi e obiettivi strategici. Come scrive Jessica Chen Weiss su Foreign Affairs, le questioni interne potrebbero addirittura costituire «ulteriori incentivi sia per stabilizzare la spirale di azioni e reazioni sia per stabilire nuove regole di fair play e una visione affermativa per disciplinare la competizione».
Il percorso è difficile, per utilizzare un eufemismo, e le aspettative sugli esiti dell’incontro erano basse sin da subito. Uno degli aspetti cruciali dei rapporti tra i due Paesi, da tempo in rotta di collisione, è rappresentato dal dossier Taiwan, argomento definito dal resoconto cinese del meeting come «il core dei core interests della Cina, il fondamento delle fondamenta politiche nelle relazioni Cina-Usa, e una linea rossa che non va superata nelle relazioni Usa-Cina»: Pechino in precedenza aveva già dichiarato come il supporto statunitense all’isola potesse portare allo scoppio di una guerra, con Biden che aveva rincarato la dose a settembre dicendo che Taiwan «compie i suoi giudizi sulla propria indipendenza, è una sua decisione» e che gli Stati Uniti difenderebbero l’isola «se nei fatti ci fosse un attacco senza precedenti», dovendo poi chiarire affermando che gli Stati Uniti «non [la] stanno incoraggiando».
Ad agosto, poi, la visita della speaker della Camera statunitense Nancy Pelosi a Taiwan aveva portato a un ulteriore deterioramento dei rapporti dell’isola stessa con la Cina e di quest’ultima con l’amministrazione Biden, aumentando il rischio di escalation militare tra le forze marittime presenti nell’area indo-pacifica.
Molti osservatori considerano inevitabile un conflitto sullo status dell’isola, sostenendo che l’attacco cinese non sia questione di se, ma di quando. Ciononostante, non vi sono elementi che mostrino una mobilitazione delle forze armate o della popolazione per un assalto, e lo stesso Xi, nel suo discorso al Congresso del Partito Comunista di ottobre, non ha menzionato alcuna deadline rispetto alla «riunificazione» del Paese tanto desiderata.
È lo stesso Biden, nel corso della conferenza stampa successiva al meeting, a rispondere a un giornalista dicendo di credere «assolutamente al loro bisogno che non ci sia una nuova guerra fredda», spiegando che non crede che vi sarà un attacco imminente da parte della Cina allo scopo di invadere Taiwan.
Il presidente statunitense ha anche detto che la sua amministrazione si opporrà a ogni «cambiamento unilaterale» dello stato delle cose, e che gli Stati Uniti hanno espresso la loro contrarietà alle «coercitive e sempre più aggressive» reazioni della Repubblica Popolare verso l’isola, «che minano la pace e la stabilità nello stretto di Taiwan e nell’area, mettendo a repentaglio la prosperità globale».
L’argomento Taiwan porta necessariamente alla riflessione rispetto all’Ucraina, sia per quanto riguarda i parallelismi tra le due situazioni (e le equivalenti reazioni dell’Occidente in caso di conflitto) ma anche per via della posizione della Cina rispetto alla guerra mossa da Vladimir Putin nei confronti di Kyjiv.
Incontrando il cancelliere tedesco Olaf Scholz a inizio novembre, Xi aveva espresso la critica più esplicita a Putin dall’inizio dell’invasione, dicendo che la comunità internazionale dovrebbe «opporsi congiuntamente all’uso o alla minaccia di uso di armi nucleari». Opinione condivisa da Biden nel corso dell’incontro, e riaffermata durante la conferenza stampa. Secondo il resoconto cinese del meeting, Xi Jinping ha affermato come la Cina sia «molto preoccupata della situazione attuale in Ucraina» dicendo che «una questione complicata non ha una soluzione semplice» e che «il confronto tra grandi potenze deve essere evitato».
Chen Weiss, nel suo articolo, sostiene che la catastrofe sia evitabile solo con la stesura di condizioni chiare da parte degli Stati Uniti rispetto al comportamento della Cina sullo scacchiere internazionale. Condizioni che non dovrebbero includere solamente minacce (necessarie e credibili) o punizioni, ma anche incentivi che consentano di intervenire direttamente nella direzione della politica cinese, invece che limitarsi a contenerla.
I due Paesi, secondo l’autrice, dovrebbero costruire un percorso comune per fronteggiare le sfide globali con cui ognuno dovrà fare i conti in futuro, e «esplorare potenziali termini di coesistenza, inclusa una visione a somma positiva della governance globale con cui entrambi possano plausibilmente convivere». Deviare la traiettoria competitiva dalla condizione di inimicizia e conflitto «libererebbe anche lo spazio politico e le risorse, da entrambe le parti, per dirigersi verso una visione affermativa e inclusiva del futuro, che misuri il successo in termini di conquiste positive, piuttosto che di quanto le capacità e le iniziative altrui possano essere ridimensionate o bloccate».
«Per il benessere, la libertà e la prosperità dei popoli di entrambi i Paesi» conclude Chen Weiss, «i leader a Pechino e Washington dovrebbero investire maggiormente in strategie e metriche di successo definite dal futuro che desiderano, non dal futuro che temono». La strada, però, sembra ancora lunga.