Un vecchio adagio sovietico dice «I comitati di coordinamento sono più importanti di ciò che coordinano». Applicando questo ragionamento all’attuale sforzo bellico russo, allora è chiaro che le istituzioni della Federazione russa stanno scricchiolando sotto il peso di una guerra dalla durata inattesa.
Mosca ha impiegato parecchi mesi per uscire dallo stupore di dover gestire un conflitto industriale ad alta intensità, ma è uscita dall’estate cogliendo l’occasione per mutare profondamente la struttura del regime e innalzando l’invasione dell’Ucraina a obiettivo primario dello Stato russo.
Il Cremlino ha prima dichiarato una mobilitazione «parziale» (ma potenzialmente illimitata) e ha poi imposto la legge marziale, che de iure si applica soltanto ai territori annessi ma de facto è estesa a tutto il Paese, grazie a nuovi poteri speciali concessi ai governatori.
Quest’ultima misura è stata accompagnata dalla creazione di due nuovi comitati, il Consiglio di Coordinamento di Governo e la Commissione del Consiglio di Stato, due corpi che in teoria dovrebbero guidare la mobilitazione di tutte le risorse economiche e sociali del Paese per foraggiare le forze impegnate sul fronte ucraino. Come suggeriscono i nomi molto simili, tuttavia, la demarcazione delle competenze affidate alle due entità non è per niente chiara, così come è dubbio cosa dovrebbero fare di nuovo rispetto a istituzioni già esistenti (come il Consiglio di Sicurezza o il Consiglio di Stato).
Almeno sulla carta, la ripartizione dei compiti è definita anche da chi siede nei due comitati. La Commissione del Consiglio di Stato è presieduta dal sindaco di Mosca Sergej Sobyanin, un putinista abbastanza popolare ma scettico dell’invasione; su di lui ricadrà la responsabilità di coordinare gli sforzi dei governatori e dei corpi intermedi regionali, inclusi quelli di natura economica.
Il Consiglio di Coordinamento di Governo è invece presieduto dal primo ministro Michail Mishustin, un tecnocrate che negli ultimi anni ha ambito alla trasformazione della Russia in una dittatura soft tecnocratica su modello di Singapore.
Il Consiglio di Coordinamento vede la partecipazione di tutti i responsabili dei dicasteri economici, delle forze di sicurezza e dei ministeri del comparto Difesa. Dato che ha poteri esecutivi e può dirigere le attività del governo federale, il Consiglio è stato ribattezzato (con molte forzature storiche) “Politburo 2.0” da alcuni osservatori.
La vaghezza di questa sovrastruttura istituzionale è voluta. Da un lato permette a Putin di tenere lontano da sé e dall’ufficio della Presidenza la responsabilità per i fallimenti del conflitto, e dall’altro alimenta la competizione fra élite su cui è costruito il regime e grazie alla quale il Cremlino può inscenarsi come giudice in ultima istanza nei conflitti intestini alla classe dirigente.
Queste lotte sono in pieno svolgimento anche oggi, con un impatto diretto anche sullo svolgimento della campagna ucraina. I disastri sofferti dalle forze regolari ha aperto una finestra di opportunità per Prigozhin, l’oligarca che gestisce i “lavori sporchi” per il Cremlino tramite i mercenari Wagner.
Essere stato in grado di buttare nella mischia unità spesso più professionali delle reclute “ufficiali” ha permesso a Prigozhin di lanciare una campagna a danno dei suoi storici avversari politici, portando (forse) anche alle dimissioni del comandante del Distretto Militare Centrale Lapin.
Lo scontro fra organi ufficiali dello Stato e poteri informali fedeli personalmente a Putin è tipico per questo regime, e ha reso complessa la coordinazione militare sul campo. Ciò che colpisce che i nuovi Comitati creati da Putin non siano solamente inadatti a sopire questo conflitto fratricida, ma anche a gestire delle difficoltà legate alla mobilitazione industriale del Paese.
Anzi, l’incertezza politica e le ambiguità nella distribuzione di autorità nuocciono gravemente alla calibrazione di una economia di guerra.
Dagli anni 2010 in poi, le aziende russe della Difesa hanno sofferto per una mancanza di macchinari e personale qualificato, soverchiandole di debito e spingendo molti stabilimenti a svendite forzate per rimanere a galla. Le industrie che si sono salvate devono tutto all’inglobamento dentro al colosso statale Rostec, che tuttavia rimane fortemente inefficiente e non permette quella «competizione virtuosa fra fornitori» che Putin ha invocato nell’ultima riunione del Consiglio di Coordinamento.
Mosca sta cercando di recuperare la mancanza di capacità produttiva reintroducendo de facto un’economia pianificata per le industrie della Difesa. Ma la facoltà dello Stato di decidere direttamente gli orari di lavoro e obbligare le industrie a produrre a prescindere dal prezzo non aiuterà a sopperire la mancanza di macchinari e la dispersione di tecnici specializzati avvenuta negli ultimi quindici anni.
Che il Cremlino abbia ordinato l’aggiornamento di vecchi carrarmati T-62 (che, come suggerisce il nome, risalgono agli anni ’60) è un’ammissione di impotenza in questo senso. Introdurre Comitati evanescenti che svuotano le istituzioni della Federazione non aiuterà per niente a superare una malagestione industriale che dura da decenni. Se andrà avanti così, semmai, la Russia si ridurrà a essere uno Stato ancora più inefficiente, con perduranti conflitti fra le élite e con una macchina bellica che è tutto fuorché efficiente.