Undici milioni di persone, in otto mesi. Sono i rifugiati entrati nell’Unione Europea dall’Ucraina e, anche se molti di loro sono poi tornati indietro, rappresentano il punto più alto in termini numerici della storia migratoria dell’Unione. Le istituzioni comunitarie e i governi nazionali hanno adottato in alcuni casi misure senza precedenti per accoglierli. Cosa che potrebbe influire sulla lunga e complicata discussione relativa al Pact on Migration, il pacchetto di misure pensato per riformare il sistema d’asilo europeo.
Accoglienza senza riserve
Il punto di svolta rispetto alle precedenti «crisi» migratorie ha una data precisa: 3 marzo 2022, meno di una settimana dall’inizio del conflitto. La Commissione europea propone di attivare la Direttiva 2001/55, che stabilisce un meccanismo di «protezione temporanea» per tutte le persone in arrivo dall’Ucraina. I ventisette Stati dell’Unione approvano all’istante.
Grazie a questo sistema, previsto dalla legislazione comunitaria per affrontare un «afflusso massiccio di sfollati» in maniera imprevista, chiunque provenga dal territorio ucraino ha diritto a un titolo di soggiorno: nessun bisogno di chiedere asilo, nessun rischio di essere respinti alla frontiera.
I permessi consentono ai rifugiati ucraini di spostarsi in tutti i Paesi dell’Ue e sono validi per tutta la durata del meccanismo di protezione temporanea: inizialmente un anno, già prorogato a due dalla Commissione. Si è anche deciso di mantenerla in vigore per coloro che tornano in Ucraina e poi, magari a seguito di una recrudescenza del conflitto, vogliono di nuovo scappare in Europa.
«Molti ucraini che hanno richiesto la protezione temporanea stanno tornando a casa, perché vorrebbero ricostruire il loro Paese e noi ne siamo contenti. Al momento dovrebbero disiscriversi dalla protezione temporanea, ma molti di loro sono riluttanti a farlo, perché pensano che potrebbero aver bisogno di fuggire di nuovo in futuro», ha spiegato la commissaria agli Affari Interni Ylva Johansson annunciando la decisione.
Finora hanno ottenuto la protezione 4,6 milioni di migranti, una cifra di molto superiore a quello che finora era stato il picco delle richieste d’asilo nell’Ue: 1,3 milioni di persone nel 2015, l’anno dei flussi più corposi di persone in fuga dalla guerra civile siriana.
Oltre al diritto di residenza, gli ucraini hanno ricevuto spesso assistenza materiale dai Paesi dell’Ue: l’Italia ad esempio fornisce un contributo di sostentamento di trecento euro mensili e centocinquanta euro per ciascun figlio minorenne.
In altri Stati il sostegno è più sostanzioso, anche dove la presenza degli ucraini è maggiore. Per supportare i governi nazionali, l’Unione ha stanziato quattrocento milioni di euro, 248 dei quali già distribuiti a Polonia, Romania, Ungheria, Slovacchia e Cechia.
Poi ci sono le iniziative di contorno, come la piattaforma di ricerca di lavoro online EU Talent Pool, che dovrebbe aiutare gli sfollati ucraini a trovare lavoro nei Paesi europei, permettendo loro di dettagliare le proprie competenze, da abbinare alle offerte dei datori di lavoro.
Certo le difficoltà non mancano, come ha evidenziato un’approfondita inchiesta del Washington Post condotta attraverso vari Stati europei. Ci sono città che hanno raggiunto il limite delle loro possibilità e chiudono le porte agli ucraini, insormontabili ostacoli linguistici nella ricerca di un impiego o problemi di integrazione nelle scuole. Ma è facile constatare come l’accoglienza riservata agli ucraini sia di gran lunga migliore rispetto a quella garantita agli stranieri di altri Paesi negli ultimi anni.
Una spinta per il patto?
Al punto che diverse organizzazioni umanitarie hanno sollevato un problema di double standard nelle politiche migratorie europee. Felipe González Morales, esperto di diritti umani delle Nazioni Unite, ha sottolineato come in alcuni casi le differenze di trattamento si applichino persino alle persone in fuga dalla stessa guerra, a seconda del fatto che siano di nazionalità ucraina, o piuttosto stranieri che risiedevano nel Paese al momento dell’attacco russo.
Ma alle preoccupazioni si affiancano le speranze di coloro che vorrebbero una riforma significativa del sistema di asilo e accoglienza. Del resto è stata la stessa presidente della Commissione, Ursula von der Leyen a suggerire la cosa nel suo discorso sullo Stato dell’Unione. «Le nostre azioni nei confronti dei rifugiati ucraini non devono essere un’eccezione; possono anzi rappresentare la rotta da seguire per il futuro».
Quel «sistema a prova di crisi» e quel «meccanismo permanente e giuridicamente vincolante che garantisca la solidarietà» invocati da von der Leyen sono gli obiettivi principali del Pact on Migration and Asylum, presentato dalla Commissione nel settembre 2020 e a distanza di due anni ancora sostanzialmente bloccato al punto di partenza.
Gli unici avanzamenti concreti finora sono stati la creazione di un’Agenzia europea per l’asilo (al posto di un «Ufficio europeo di supporto all’asilo») e un accordo di diciotto Paesi per una piattaforma solidale, raggiunto a giugno 2022.
Ma si tratta sempre di solidarietà su base volontaria: di recente, la presidenza ceca del Consiglio dell’Ue, in un documento visionato dal quotidiano Politico, avrebbe proposto agli altri governi un sistema di ricollocamento di cinquemila o diecimila persone all’anno. Qualcosa di molto distante dal meccanismo di redistribuzione obbligatorio previsto dal patto, da attivare nei casi di alta pressione migratoria su un Paese membro.
«Speriamo che la crisi dei rifugiati ucraini crei le condizioni per trovare un’intesa», spiegano a Linkiesta fonti di alto livello del Parlamento europeo, sicuramente l’istituzione comunitaria più favorevole a cambiare la politica migratoria nell’Unione.
Una svolta è necessaria, secondo la gran parte degli eurodeputati, anche perché nuove situazioni delicate sono dietro l’angolo. La prossima riguarderà con ogni probabilità i Balcani occidentali: secondo gli ultimi dati di Frontex, in questo quadrante gli ingressi irregolari a settembre 2022 sono aumentati del cento per cento rispetto allo stesso mese dello scorso anno.
Non è un caso se la Commissione ha appena adottato un nuovo pacchetto da quaranta milioni di euro di assistenza ai Paesi balcanici per rinforzare il controllo delle loro frontiere e vorrebbe aumentare la collaborazione tra Frontex e le autorità nazionali di Albania, Serbia, Montenegro, e Bosnia-Erzegovina.
Anche a causa del complicato dialogo con le capitali nazionali su questo tema, il mantra di Bruxelles resta sempre lo stesso: meglio prevenire i flussi, che gestirli.