Se siete gente che mi frequenta, potete saltare queste prime righe, in cui dico cose che già saprete: che sono la più formidabile cafona che si possa incontrare, che sto seduta con posture che ricordano più Vito Corleone che Kate Middleton, che mangio con le mani e mi soffio il naso nel tovagliolo.
Tutta questa premessa per dichiarare il mio conflitto di disinteresse rispetto al bon ton. Su Instagram seguo Elisa Motterle, serissima docente di questa disciplina a me aliena, e quando vedo suoi follower chiedere il permesso di usare il coltello se stanno mangiando una pietanza per la quale lei ha detto che si può usare solo la forchetta, ma in quel caso la cottura le dà la consistenza d’una scarpa e con la forchetta proprio non riescono, mi si stringe il cuore.
La vita, per chi vuol essere educato, dev’essere faticosissima – e ve lo scrivo seduta tra un piano e l’altro del mio palazzo, sulle scale dove mi sono accasciata per sfilarmi il reggiseno che m’infastidiva troppo per resistere fino a casa. Credo che non sia previsto da alcun bon ton denudarsi sul pianerottolo, ma vorrei invocare un’attenuante: io almeno non scrivo prontuari sul nuovo galateo.
Il New York Magazine, invece, con la disperazione di chi deve fare decine di copertine l’anno e mica può farsi venire sempre buone idee, ha deciso di dedicare la sua ultima copertina al nuovo galateo, quello di cui c’è bisogno (si fa per dire) in un’epoca in cui tutto è cambiato, e le preoccupazioni, a guardare la copertina, spaziano dallo sbagliare i pronomi a qualcuno all’aver attaccato il Covid al capufficio.
All’interno, tuttavia, le regole spaziano tra i generi. Ci sono quelle assai discutibili: non si può chiedere «che lavoro fai» (è, secondo loro, classista e noioso: vivranno tutti di rendita, con l’hobby del giornalismo); in compenso è raccomandato chiedere quanto il tizio che ci hanno appena presentato paghi d’affitto: i compilatori paiono convinti che gli affitti alti di New York siano un tema che cementa grandi amicizie e favorisce l’empatia.
Ma soprattutto ci sono quelle che non si capisce perché vengano catalogate come «nuove»: «non svegliare la persona con cui stai neanche se sei insonne e vuoi chiacchierare» è una regola cambiata da poco tempo? Voialtri prima non facevate volare dalla finestra chiunque si azzardasse a svegliarvi? Io, che degli ex in genere non ricordo neanche che faccia abbiano, giro con l’identikit del tizio che quasi vent’anni fa mi svegliò e poi si girò dall’altra parte e si riaddormentò, in cerca da quasi due decenni d’un sicario che mi vendichi a tariffe popolari.
La lista è stata rimproverata dai giornalisti d’altre testate americane d’essere troppo piena di regole che attengono alle frequentazioni delle celebrità: ci possiamo aspettare altro, in un’epoca in cui la principale preoccupazione degli intervistatori è autoscattarsi con gl’intervistati per dire all’Instagram «ehi, uno famoso mi ha parlato»? È sicuramente un pizzino per gli inviati a Sanremo l’invito a non dirsi ammiratori di qualche persona famosa che s’incontra per la prima volta, «perché questo disumanizza le persone e alimenta la competitività che distrugge la società» (anche meno, eh). Ma a me sembra non prevalga il galateo dell’approcciare i famosi, bensì la parte «era così pure prima, e comunque non si tratta di galateo ma di semplice buonsenso».
Per esempio: «in una conversazione, prestate attenzione al fatto che potreste star parlando solo voi». Ho avuto per quattordici anni una vicina di pianerottolo alla quale non dovevo chiedere «come sta?» se non volevo che mi dettagliasse l’elenco delle sue sfighe facendo slittare d’un quarto d’ora la mia uscita dal palazzo. In quattordici anni, non c’è stata una volta in cui mi abbia chiesto «e lei?». Dov’era il New York quando avevo bisogno d’un ritaglio di galateo da attaccarle alla porta?
Oppure: se sei un adulto, il giorno del tuo compleanno non sei autorizzato a fare capricci. O anche: a una festa, non guardarti intorno cercando qualcuno di più figo con cui parlare piantando lì la sfigata con cui stai facendo conversazione. Lo so che lo fanno lo stesso (io sono sempre, sempre, sempre la sfigata piantata lì), ma non è mica una raccomandazione recente, essù. Avrebbe potuto già scriverla Edith Wharton o Louisa May Alcott.
O ancora: se la padrona di casa si mette a lavare i piatti, è ora che gli ospiti se ne vadano. O: se perdi qualcosa che t’hanno prestato, ricompralo. O persino: non spettegolare al lavoro circa cose che non dovresti sapere. Forse potevano raccoglierle sotto un’unica regola: cerca di avere un po’ più d’uso di mondo di quanto ne avesse Mowgli cresciuto nella giungla.
(Io, che sono abbastanza Mowgli, ho molto riso alla regola 104: «in ufficio, tieni le scarpe». Ricordo con gran divertimento quel paio d’anni in cui ho lavorato in una redazione, in un’epoca in cui mi ostinavo a portare i tacchi e ovviamente li calciavo via a metà mattina e restavo scalza, con gran sdegno d’una stagista che chiamava la madre lamentandosene: non capisco come al New York possano non sapere che certe cose le fai non perché non sai che sono inopportune, ma proprio perché lo sai e vuoi che la tua prepotenza si noti).
Tra i divieti che non si capisce perché dovrebbero essersi evoluti negli ultimi anni, ma soprattutto sono incomprensibili, c’è quello di dire a qualcuno che somiglia a qualche persona famosa: se mi dici che somiglio a un’attrice che reputo brutta, potrei offendermi. «Potenzialmente insultante, e razzista». Americani, dovete darvi una grossa calmata.
Sono personalmente offesa, semmai, dalla regola 20: «non descrivere i TikTok, è più noioso che descrivere i sogni». Ma come vi permettete. Un’abbondante metà delle mie conversazioni consiste in descrizioni di meraviglie che ho visto su TikTok (l’altra metà sono riassunti di Stendhal e Tolstoj).
Inviterei chi ha compilato la 110 («non si fa la spia se qualcuno salta i tornelli del metrò») a smetterla di cercare di far assomigliare l’America all’Italia: ci si sono già avvicinati moltissimo con Trump, ora basta emularci.
Capisco lo scoraggiare i commenti al fatto che qualcuno porti ancora la mascherina, ma «chiedere a qualcuno come ha preso il covid è come chiedergli come ha preso la clamidia» è una scemenza. Vi svelo un segreto segretissimo: la clamidia so già come l’hai presa.
Apprezzo assai la conclusione della regoletta su chi paga agli appuntamenti romantici ora che abbiamo deciso di far finta che l’eterosessualità non sia affatto più diffusa delle alternative, e insomma vai a sapere chi fa l’uomo: «se penetri, paghi». Ma è un evidente pizzino sanremese (un altro, dopo gli autoscatti coi famosi) che ha attirato la mia attenzione e mi ha fatto perdonare la redazione del New York per la quantità d’insensatezze contenute in questa lista.
A un certo punto delle molte regole nell’avere a che fare coi famosi, il giornale raccomanda di non chiamare DeNiro «Bobby»: non importa quanto siate intimi, non ostentate confidenza coi famosi. Mentre leggerete questo rigo, sarà in corso la prima conferenza stampa di Sanremo. Non vedo l’ora di contare quanti giornalisti si rivolgeranno al conduttore chiamandolo «Ama», e poi di telefonare al New York per fare la spia.