Fossi il tipo che parla di sé, partirei dalle ultime due divergenti volte che ho conosciuto il lusso d’ignorare l’esistenza dei due, per raccontare la storia d’un presidente di Regione e d’un non so.
L’ultima volta che ho avuto il privilegio di non sapere chi fosse Stefano Bonaccini era una domenica di gennaio. Stava arrivando la pandemia, ma non lo sapevamo. Ero a Bologna perché avevo rimandato l’abituale cena prenatalizia con amiche bolognesi: andavo a Bologna a vedere lo spettacolo di Gianni Morandi, una domenica pomeriggio, e la cena era stata fissata per quella sera.
Era la domenica delle regionali, ma la cosa non interessava particolarmente nessuna di noi: adesso l’abbiamo rimosso, ma – prima che la pandemia ci costringesse ad apprendere quella cosmica disgrazia che è la gestione regionale della sanità – dei presidenti di Regione non era mai importato niente a nessuno. Il nome di quello dell’Emilia Romagna non lo sapevo, e probabilmente non lo sapevano neppure le mie amiche.
Amiche che pure l’avevano votato, con l’automatismo con cui gli emiliani votano a sinistra (quasi sempre: perché non vada così, devi proprio sbagliare candidato, mettere Soumahoro nel collegio di Modena, ecco). Divenendo così, le elettrici, concause dell’ultimo delirante dibattito dell’Italia prepandemica: da una parte quelli che «Salvini ha perso perché ha citofonato al tizio al Pilastro», dall’altra quelli «Bonaccini ha vinto per merito delle Sardine».
Tre anni dopo, del citofono restano i meme, delle Sardine niente. Tre anni dopo, è impossibile ignorare le foto di Bonaccini. Foto in cui guarda l’orizzonte con occhiale fumé da guardia del corpo a noleggio (o da erede estetico di Previti), foto che vengono allegate a tweet in cui dà informazioni istituzionali o simili, e tu guardi quei quadratini social e ti chiedi: ma cosa c’entra la foto?
L’ultima volta che sono stata una persona abbastanza seria da non sapere chi fosse Dino Giarrusso non so collocarla con altrettanta precisione temporale. Ne ho forse scoperto l’esistenza nella stagione del MeToo, quando salì sul carro dei moralizzatori e, dal pulpito del più immorale dei programmi televisivi, perseguitò e diffamò un regista delle cui colpe nel tribunale del varietà non ci fu poi mezzo riscontro giuridico? Mmm, forse no.
Forse ne ho scoperto l’esistenza quando, un paio d’anni prima, un altro inviato dello stesso programma pose le basi per essere condannato in primo grado e in appello per violenza privata nei miei confronti, e il tenero Dino esibì la propria virile dialettica su social su cui mi diede della mitomane che millantava reati che lui era certo non fossero mai occorsi?
Probabilmente ne è ancora certo: quel programma è convinto d’essere giudice ultimo e che le proprie sentenze contino più di quelle dei tribunali; e il tenero Dino è così ontologicamente pregno della balzana etica di quel varietà da essersi, alle elezioni europee, candidato come «Dino Iena», venendo oltretutto rinnegato dal programma stesso (se il più esecrabile programma del mondo prende le distanze da te, è perché sei un po’ meglio del programma o perché sei persino peggio?).
Di sicuro, c’è stato un momento in cui gli autoscatti compiaciuti di Giarrusso erano un tema di conversazione collettivo. Era prima che Giarrusso ottenesse un seggio in Europa e gli italiani qualunque ridessero dei suoi interventi in aula; era quando Giarrusso era patrimonio del mondo del cinema (nel quale aveva cercato di brillare) e del giornalismo, quando Giarrusso era quello di cui c’era sempre qualcuno che aveva un autoscatto da inoltrarti.
Se pensate che fotografarsi (o farsi fotografare da altri, come fa Bonaccini, ma poi comunque diffondere la propria immagine) non sia un tema politico, forse non siete mai stati in visita a Pompei. Dove, da quando è stato ritrovato un affresco di Narciso, una guida turistica campana spiega così il mito ai visitatori: «Si piaceva talmente tanto, talmente tanto, che per specchiarsi è affogato: uno sciemo totale». Se questa non è la più formidabile analisi politica fatta in questo secolo, io non so proprio quale.
Il tema rischia d’essere svilito in un’epoca che il mito di Narciso l’ha mandato a puttane (scusate: ha rispetto a esso operato uno slittamento semantico), grazie alle lagnose femmine che negli anni Ottanta avrebbero annuito forte leggendo “Donne che amano troppo” e negli anni Venti hanno tutte, tutte, tutte un ex di cui dicono serie «era un narcisista patologico» (cioè: voleva stare con me meno di quanto io volessi stare con lui).
Nessuno che avesse visto i tweet di Bonaccini può meravigliarsi dell’ingresso di Giarrusso nel Pd: stiamo parlando dell’aspirante segretario che due settimane fa ha postato una propria foto seduto a un tavolo lucido come il lago di Narciso. La didascalia diceva, giuro, «Rifletto, riflesso». Con aforisti così, chi ha bisogno di guide turistiche.
E nessuno che abbia consuetudine con l’appropriazione culturale di Giorgio Gaber – sarebbe da studiare come sia diventato oggetto culturale preferito degli impresentabili, povero Gaber – si stravolgerà se Giarrusso l’ha citato durante la manifestazione bonaccina. Lui e De Gregori, e in mezzo Berlinguer, del quale nel revisionismo giarrussico il Pd si è finora vergognato. Berlinguer, il santino su cui la sinistra italiana converge più compatta che su Pizzaballa, per Giarrusso è un rimosso di cui quasi ci si vergogna: nessuno ci si è mai autoscattato assieme.
Quindi, riflettendo riflesso, Stefano Bonaccini ha fatto entrare nel Pd Dino Giarrusso. Molte le proteste: da chi non apprezza il suo precedente partito, il suo precedente lavoro, i suoi precedenti autoscatti. Da chi vuole che si scusi per aver fino a tre quarti d’ora fa aver insolentito il Pd e da chi sostiene che siano più i voti che farà perdere, al fin qui favorito alle primarie Bonaccini, di quelli che gli farà guadagnare.
Mi permetto di suggerire un’interpretazione alternativa di quest’alleanza d’istantanee con sguardo pensoso all’orizzonte. Credo che la chiave – lo so, vi ho depistato – non stia in «Rifletto, riflesso», ma in un altro tweet.
Una settimana fa, Bonaccini twittava questa sintesi della sua intervista a Lucia Annunziata: «Siamo stati al governo per un decennio senza vincere le elezioni: se sarò segretario ci torneremo solo se vinceremo alle urne». Ora, è chiaro che neanche uno con tutte le patologie del DSM può pensare che il Pd vinca le elezioni da qui a qualche decennio. Quel che Bonaccini ci ha detto, con l’annessione autoscattista di sabato, è: mai Giarrusso al governo. Mi sembra una promessa più inebriante di «Un milione di posti di lavoro», e con maggiori chance di venire mantenuta.