Tra cartoline e mappe Le condizioni del viaggio contemporaneo a Varanasi

A Benares, luogo di culto della santità indiana, si può arrivare in molti modi. Come scrive il filosofo Paulo Barone, vi si giunge per caso o perché si cerca qualche cosa, sedotti dal fascino struggente delle cose che storicamente vanno lì a morire

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Il mondo cambia aspetto. Si apre. Aumenta la sua superficie. Moltiplica il numero delle voci che lo abita. Infittisce la sua trama. Sgretola le ripartizioni e le distanze un tempo in vigore: nord-sud, oriente-occidente. Si contrae. «Anche se si conosce una sola lingua si scrive ormai in presenza di tutte le lingue del mondo». Quindi si involve e si dissolve. Il punto e il momento sono le nuove unità di misura di spazio e di tempo. L’interiezione (ah! mmh! bah!) e il flash le nuove unità di misura della lingua e dello sguardo. Come un foglietto di carta il mondo si dilata, si addensa e si dissolve. Diviene ellittico, informe, irriconoscibile.

Ma come si è svuotato il mondo, come ci appare rapido e abbreviato! Riflesso nei mille scatti fotografici, nei mille filmati in continua produzione, nei testi concisi della comunicazione o dell’informazione quotidiana che rimbalzano dai satelliti e transitano attraverso i circuiti televisivi, la rete, i blog, i giornali. Nei passi veloci con cui procede, nelle telegrafiche citazioni con cui si racconta, nei modi convulsi con cui senza sosta cambia pelle, o sotto i colpi della povertà e delle guerre vede miriade di forme umane migrare, il mondo perde consistenza e misura. Le cose, pressate da ogni lato, si consumano di colpo, dissolvono presto il loro fiato, si restringono e vanno rapidamente fuori uso.

Mentre escono di scena macchiano di sangue o di nero quel tanto che basta, ma spesso per sempre, ora un albero, ora un corso d’acqua, ora un lembo di terra o d’aria. Cose che, una volta macchiate, a loro volta si piegano e si ritirano per sempre. Un “light crumpled throwaway”, “un lieve volantino accartocciato”: ecco un’immagine appropriata del mondo contemporaneo. La profondità e l’altezza che si assottigliano a semplice superficie. La superficie che si trasforma in una pagina su cui scarabocchiare qualcosa o da calpestare. La pagina che si consuma, si restringe e si riduce in un foglietto striminzito, non più riciclabile. Come “lieve foglietto pubblicitario accartocciato”, il mondo lascia vuota, lacunosa, desolata l’immagine in cui compare.  Da quest’ultima infatti decade per spostarsi in un angolo, rannicchiato, ai margini della scena. Un mondo contratto, ridotto. Sottile e fragile, di carta. Logoro e dismesso, come una cartaccia che si appallottola e si getta via dopo averla usata. Un mondo che fluttua in uno spazio vuoto, senza meta, ormai divenuto lo scarto, il resto di se stesso.

Un resto alla deriva nel vuoto. In un mondo che muta i suoi lineamenti è lecito aspettarsi che mutino anche le condizioni di viaggio. Un discreto gruppo di viaggiatori, per primo in epoca recente, aveva fatto rotta verso est, verso Benares. Non si può dire con certezza di cosa andassero in cerca. Quando però essi giunsero in città ne rimasero impressionati. Toccarono con mano le differenze acute che caratterizzavano il luogo e non mancarono di segnalarle, con ogni mezzo a disposizione. Per quanto fossero fedeli – e dunque preziosi – i loro resoconti rimasero tuttavia in superficie, incapaci di cogliere l’atmosfera di fondo del posto, che infatti si ritrasse in se stesso, inaccessibile.

Col tempo fu chiaro che quei primi visitatori si erano potuti dirigere soltanto verso la Benares fisica, la città geografica, lungo una traiettoria di viaggio che la poneva ai confini sconosciuti, esotici e misteriosi del globo. Osservarono quel luogo con gli occhi di casa, rivolti all’indietro, gonfi di nostalgia, e senza porsi molte domande finirono col riprodurre deliziosi bozzetti di maniera e placide vedute panoramiche. E tuttavia il fascino indiscusso di cui sono dotate le loro cartoline illustrate riposa, tutt’oggi intatto, su una distanza e una lontananza effettive, che la trama del mondo ancora garantiva e solo allora cominciava a perdere.

Il secondo gruppo di viaggiatori aveva dimostrato una maggiore sensibilità e preveggenza. Immersi nella loro ricerca personale, spinti a procedere sulla scorta di un colpo, di una ferita, di una piccola ossessione – e dunque messi in movimento per necessità, alle prese con un viaggio dentro al viaggio – ciascuno di essi aveva ignorato in un modo o in altro la città geografica, passandole accanto con incedere distratto, gettandole uno sguardo di sfuggita o ritrovandosela all’interno del proprio itinerario inavvertitamente, quasi per caso. La Benares tangibile era stata l’occasione o il pretesto per aver accesso piuttosto alla Benares invisibile, presso cui ciascuno di essi si era diretto a sua insaputa – e dunque nel modo più appropriato. Invece che verso un luogo favoloso, posto ai confini del globo, il viaggio di costoro si era orientato verso il limite delle cose, verso i punti di sfinimento di se stessi, negli interstizi ciechi e sospesi del tempo, e perciò verso un luogo che si trovava ovunque e da nessuna parte. Si trattò così di viaggi anomali e bizzarri, forse votati allo scacco sin dal principio, segnati da incidenti, contrattempi e fallimenti, sia sul fronte del viaggio reale sia su quello del viaggio immaginario, a volte senza poter stabilire su quale dei due fronti questi segni accadessero per primi.

Viaggi lacunosi e visioni lacunose, come i progetti di ricerca che ci sono rimasti a documentare gli uni e le altre: vere e proprie mappe di un viaggio (e di uno sguardo) al contempo mancato e riuscito, a seconda di quale Benares si prendeva in considerazione, se quella concreta o quella invisibile. E tuttavia, nemmeno le straordinarie mappe di questi viaggiatori, per quanto più adeguate ai mutamenti improvvisi e alle rotte al buio, avevano dovuto fronteggiare il cedimento o il sovvertimento della trama delle cose. Nessuno di loro aveva dubitato sul senso del viaggio intrapreso, che anzi si era addirittura duplicato in un viaggio “esterno” messo al servizio di quello “interno”. Restava perciò in sospeso la questione di come dare conto delle trasformazioni cui era andato incontro il volto del mondo; di come queste trasformazioni si ripercuotevano sulle abituali facoltà percettive dei viaggiatori odierni; e soprattutto di che cosa significava ancora viaggiare e avere per destinazione Benares in questa mutata scena di un mondo appallottolato come una carta usata.

Nel suo terzo avatāra Vishnu assume le sembianze di un cinghiale (varāha) per salvare la terra da un demone che l’aveva trascinata in fondo al mare. Di questo episodio mitologico esistono svariate rappresentazioni che differiscono tra loro di pochissimo. In genere esse mostrano un cinghiale imponente, con le zampe posteriori piantate sul fondo delle acque mentre mantiene alto sul muso o talora in equilibrio sulla punta delle zanne un minuscolo globo terrestre, lieve come una pallina colorata, ancora gocciolante. A occidente, la scena equivalente, tratta dalla mitologia greca, raffigura invece il gigante Atlante piegato dallo sforzo sovrumano di sostenere sulle sue spalle il grave peso del globo e della volta celeste.

Questa immagine congiunta, orientale-occidentale, mostrava bene il diverso atteggiamento di considerare il mondo, più leggero e giocoso a est, più faticoso e doloroso a ovest. Mostrava bene anche il differente rischio che il mondo correva a est e a ovest: saltellando sulla punta delle zanne dell’animale divino il mondo poteva essere spinto sempre più in là, sino a sparire; gravando sul dorso ricurvo del gigante stremato poteva rotolare sempre più giù, sino a cadere. L’orientalista italiano Giuseppe Tucci l’aveva notato. In un campo non molto distante da Katmandu, imbattutosi una volta in una stele del tardo periodo Gupta raffigurante, per l’appunto, Vishnu in forma di verro che emergeva dalle acque cosmiche reggendo la terra nella mano destra, non poté fare a meno di notare con stupore quanto minuscola fosse l’immagine terrestre rispetto alla figura gigantesca del Cinghiale, che occupava quasi l’intera superficie del dipinto: «Questa terra che ci appare tanto vasta e sulla quale si svolge la tragicommedia della nostra storia, questa terra appare una cosa del tutto insignificante, che il dio regge nella mano come un balocco».

Mentre adombrava i pericoli e rischi cui andava incontro, l’immagine orientale-occidentale raffigurava un mondo fragile, ma ancora ben visibile. Invece era chiaro che nel frattempo, via via che era maturata la scena contemporanea, il mondo doveva aver compiuto il passo successivo, e ormai fuggito via dalle mani di Vishnu, si era già volatilizzato in mille rivoli; e scivolato giù dal dorso di Atlante, si era già disintegrato in mille particelle. Per essere adeguata alla fase attuale l’immagine orientale-occidentale non poteva che risultare vuota: il mondo fuggiva dalla sua inquadratura, come se, senza davvero essere andato altrove, si fosse posto stabilmente nel suo retro. Chi osservava le cose, perciò, pur aguzzando gli occhi, non vedeva nulla, solo ombre e nebbia. Ma siccome “sentiva” che il mondo era pur sempre lì, sebbene in un rovescio inaccessibile, finiva per riabilitare di continuo la solita (pseudo) prospettiva che gli offriva il fronte, il dritto ormai vuoto e annebbiato dell’immagine.

Che cosa aveva da spartire Benares con questa scena in cui il mondo era sparito via e caduto fuori, nel rovescio o in un angolo della sua immagine come un foglietto accartocciato, cosicché chi osservava, se vedeva bene, fissava solo un’inquadratura vuota? Date le circostanze Benares poteva sembrare un diversivo, una meta stravagante, una località come un’altra. Eppure, se tra le sue prerogative c’era quella di essere il luogo deputato all’orientamento e alla raccolta dei residui, mentali e fisici, delle cose – anzi, di essere un luogo aereo composto esclusivamente delle loro rimanenze, impressioni, risonanze – al punto che quando tutto si fosse dissolto è lì che si sarebbe ritrovato, allora Benares rappresentava forse la sola porta d’accesso a quel retro, a quel rovescio in cui il mondo oggi sostava, invisibile e inaccessibile.

Se lo svuotarsi dell’inquadratura e il ritirarsi del mondo (e del mondo di ciascuno) in una carta gettata via indicavano la fase residuale raggiunta dalla percezione dello sguardo e dalla consistenza delle cose, allora Benares rientrava a pieno titolo nella scena contemporanea e prendere la via dei suoi ghat costituiva piuttosto il viaggio del secolo, il viaggio da non perdere. Con il dominio dell’elemento residuale, la “città dei residui” di Benares acquistava di colpo un rilievo unico, pari solo a quello che si assegna alle autentiche capitali planetarie.

Benares Arlante del XXI secolo, Paulo Barone, Nottetempo, 309 pagine, 18 euro

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