Giulia De Marco nasce a Cosenza il 21 febbraio 1940 in una famiglia della buona borghesia calabrese: il papà è dirigente della Cassa di Risparmio di Calabria, la mamma è casalinga «ma per modo di dire, perché in realtà era molto interessata alla politica: diventò segretaria femminile della nostra sezione della Dc. Da bambina ho fatto con lei la campagna elettorale del ’48 cantando O biancofiore simbolo d’amore, l’inno dei democristiani di allora». Completano il quadro due fratelli e una sorella, lei è la più piccola. Dopo le elementari dalle suore canossiane, Giulia frequenta la scuola pubblica, incluso il liceo classico Bernardino Telesio, e poi sceglie la facoltà di Giurisprudenza, nonostante i professori insistano perché si iscriva a Matematica. «In famiglia mio fratello Nicola, di sedici anni più grande, era magistrato, due fratelli di mia madre erano avvocati… si respirava quest’aria.
Nel ’58 la facoltà di Legge mi offriva la possibilità di diventare avvocato, notaio, consulente d’azienda, eppure il mio sogno rimaneva quello di fare il magistrato per via di una sensazione che scaturiva dai rapporti con i miei amici: mi consideravano una persona in grado di mettere pace, di risolvere le cose, insomma mi vedevano come “un giudice”. Ma all’epoca non si pensava assolutamente che nel giro di quattro o cinque anni sarebbe successo quel che poi è accaduto», spiega, riferendosi alla legge del ’63.
Una volta laureata, Giulia De Marco non frequenta alcuna scuola di preparazione al concorso: «Ce n’erano una a Napoli e una a Roma. Mi sono preparata da sola, a Cosenza: al mattino insegnavo in un paesino vicino – un anno ad Acri, un anno a Bisignano – poi tornavo a casa e studiavo». I ricordi si riaffacciano: la grande aula a Roma in cui si svolgono le prove scritte e sono disposti da una parte gli uomini, dall’altra le donne; la sensazione spiacevole per l’approfondita perquisizione delle poliziotte; la tensione di giornate estremamente stancanti. «Conoscevo gli argomenti e non ho avuto difficoltà a scrivere quello che sapevo. Non avevo idea, però, se bastasse o meno. Ho saputo di essere stata ammessa agli orali perché mi è arrivata una copia di un giornale, credo “L’Osservatore giudiziario”, in cui si diceva “Questa copia è riservata agli ammessi del concorso”, dopodiché mi sono attivata e ho telefonato al ministero: può sembrare una boutade e invece è andata così, mi hanno detto: “Le arriverà la data in cui dovrà sostenere gli orali”… che poi andarono bene, in tutta tranquillità».
Sui comportamenti dei colleghi, e sul clima che si genera anche rispetto al suo essere donna, Giulia De Marco distingue tra i più anziani («ci trattavano un po’ come figlie ribelli, diciamo così») e i coetanei («erano preoccupati: loro sì che ci conoscevano bene, sapevano come eravamo determinate e studiose»). Per gli avvocati, aggiunge, «eravamo un’incognita. In quella fase i giornali avevano cominciato, apparentemente prendendo le distanze, a riportare brani dei discorsi dei Padri costituenti.
Non so se l’opinione pubblica, e quindi anche gli avvocati, potessero essere influenzati da esponenti come Giuseppe Codacci Pisanelli o Giovanni Leone. In quelle citazioni c’era chi faceva riferimento al ciclo mestruale, chi alle teorie di Charcot sull’isteria femminile, chi aveva dichiarato che manchiamo di forza, di equilibrio, che siamo soggette alle emozioni e quindi non avremmo potuto essere raziocinanti ed equilibrate. Gli avvocati si chiedevano “Chi sono, queste? Che faranno? Come lo faranno?”».
Qualche effetto le dichiarazioni dei Padri costituenti lo producono se Giulia De Marco viene esclusa da un collegio per un processo per stupro. O se, di fronte all’idea che sia lei a riassumere le deposizioni e a dettarle al cancelliere di udienza, un avvocato si rivolge al presidente chiedendogli di procedere in prima persona: «Mi sono sempre domandata se lo avesse fatto anche in altre occasioni con i miei colleghi giovani, o se il problema era che se ne occupasse una donna. Il presidente liquidò la cosa: “stia tranquillo, io controllo”. Ad ogni modo, ho sempre avuto l’abitudine di comprendere le ragioni dell’altro, noi donne eravamo una novità, io ero lì da un mese, capisco che potessero essere un po’ disorientati: l’avvocato in questione era anziano, lavorava da quarant’anni, noi avevamo 25 anni e l’aspetto di ragazzine. Alcuni atteggiamenti bisognava capirli senza viverli come una deminutio, questa è stata la mia regola. Parlare di discriminazione senza capire l’incultura che c’era stata fino a quel momento, è sbagliato: oggi si può parlare di discriminazione, allora non era insensibilità, era incultura».
L’occasione per dimostrare l’infondatezza del pensiero di alcuni Costituenti arriva presto, quando Giulia De Marco chiede al Csm, in vista del matrimonio, il trasferimento a Brindisi, una sede non facile, con un Tribunale senza presidente perché sospeso per un procedimento disciplinare.
La giovane magistrata, dopo pochi mesi, è in attesa del primo figlio e il giudice facente funzione di presidente preferisce ignorare la cosa non sapendo come gestirla. «Il periodo feriale [cioè quello della sospensione dei termini processuali, in cui gli uffici sono a ranghi ridotti, N.d.R.] andava dal 15 luglio al 15 settembre; i giudici più giovani per prassi lavoravano in quei mesi, i più faticosi. Avevo 27 anni e, pur essendo incinta, il presidente non ritenne di concedermi le ferie, in un’estate caldissima, viaggiando in treno tutti i giorni (vivevo a Bari) e contemporaneamente studiando per l’esame di aggiunto. Detti prova di resistenza e forza d’animo: tutto quello che alcuni dei nostri Padri costituenti pensavano non avessimo»