L’America dei BalcaniLe difficoltà dei migranti che trovano rifugio in Kosovo

In “La guerra invisibile” Maurizio Pagliassotti affronta un viaggio lungo seimila chilometri alla scoperta di un fronte di guerra crudele, nascosto e spesso ignorato: quello contro chi prova a entrare in Europa

AP/Lapresse

Un giorno sono entrato dentro un appartamento, uno dei molti dove questi esseri umani vivono ammassati perché trovano un rifugio: altri esseri umani si sono dati il compito di aprirgli le porte di casa, porgergli delle coperte e del cibo, una cucina, un letto, la doccia, il riscaldamento, quanto noi consideriamo livelli minimi di civiltà. Ero a Pristina, capitale del Kosovo, anche se pare di essere a Las Vegas tante sono le luci colorate e i piccoli casinò che ingolfano il panorama di una città in preda a un tumulto edilizio. Arrivano i capitali, ne arrivano tanti in Kosovo. Giungo in questa casa spedito da un amico che mi dice: «Vai lí», e fatti raccontare la storia del vetro della sala da pranzo. Altro non aggiunge. Quando busso alla porta della casa di John – un tizio energico statunitense, giovane e palestrato che non ho capito in cosa traffichi da queste parti – con lo sguardo cerco e trovo subito il vetro della porta che dà sulla sala da pranzo: ha un grosso buco appena coperto da nastro adesivo trasparente e alcuni spunzoni sono ancora presenti, incastrati. John è un ragazzo gentile e simpatico, veste come un turista che è pronto ad andare in spiaggia a fare surf: ma qui siamo in Kosovo ed è inverno e la sua camicia hawaiana stona. Ha circa trent’anni e mi racconta che sua nonna era italiana, napoletana. Non mi chiede nulla di personale perché ha avuto informazioni rassicuranti su chi sono, ma mi offre una montagna di cibo che sta cucinando in mio onore: esiste questa rete lungo tutti i Balcani che con piacere accoglie giornalisti, scrittori, volontari, chiunque giudichi “utile” per la causa. Si è introdotti nella rete quando si è in Bosnia, almeno a me è capitato cosí, e da lí in avanti, se si supera il silenzioso e a volte esplicito esame morale, si può chiedere quando si ha bisogno. Non troppo, quando è necessario, meglio non insistere: giustamente queste persone hanno cose piú importanti che fare le guide turistiche a giornalisti, fotografi, scrittori. Anche se costoro sono alla fine il contatto con il mondo e, bisogna dirlo, con le donazioni che permettono a questo “settore” di sopravvivere, per altro nella povertà semiassoluta. Sono le missioni del tempo secolarizzato. La rete, se gli sei “simpatico”, risolve ogni problema, trova contatti, racconta storie, ti fornisce perfino denaro, passaggi sui camion, corrompe guardie al posto tuo senza farti rischiare nulla: ma devi essere a posto e devi avere qualcosa da offrire. Se non gli piaci ti ignorano, non rispondono e scompaiono. Io con la rete sono arrivato fino a John, nato a Detroit, biondo con gli occhi verdi, che vive in un appartamento a Pristina un mattino di fine novembre 2021.

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John: «Un giorno arriva questa coppia irachena mal messa, li avevano respinti al confine con il Montenegro e non sapevano dove andare, cosí eccoli qua da me per riposarsi per qualche giorno»: non chiedo perché questi arrivano da lui, come mi è stato precedentemente detto. «Una bella coppia davvero», continua, «lui diceva di essere un ex militare e lei, di poche parole, una commessa in un centro commerciale di Baghdad: erano diretti verso la Svezia da dei parenti che li stavano aspettando, in viaggio da pochi mesi quindi un cammino abbastanza spedito. Lui non si dava pace perché al confine li avevano respinti, avevano comprato un buon passaggio dal trafficante locale, uno dei piú sicuri, ma quella notte quando erano arrivati nei boschi di Kuqishtë, poco prima del confine con il Montenegro, li avevano presi. O meglio, avevano visto delle torce nel fogliame e lo smuggler aveva deciso di tornare indietro». Cose che succedono, la prassi, ma non quando paghi mille dollari il passaggio della ridicola e inutile frontiera tra Kosovo e Montenegro. L’agente in ogni caso aveva restituito tutto con tanto di scuse: «Frontex ha nuove pattuglie, il confine resterà chiuso per un po’, dovete avere pazienza». Solo che quella pazienza era diventata una tela di Penelope, perché il capo agente per oltre un mese era andato avanti con la storia che c’erano le guardie di Frontex e provare era inutile, li avrebbero presi e allora addio Svezia si torna in Iraq. Passano i giorni e le settimane e quelli stanno sempre dentro l’appartamento di John mentre altri arrivano e se ne vanno con l’aiuto di altri trafficanti. Che, però, se contattati dalla famiglia irachena anche loro dicono: «Impossibile c’è Frontex». Un enigma, un mistero, che sarà successo? «Tutto diventa molto piú chiaro e umano», racconta John, che un po’ se la ride, «quando un giorno la signora irachena va a fare la doccia e lascia il telefono sul letto.

Il resto lo si può immaginare, è una storia assurda e poetica, violenta e piena di speranza. Il marito, ahinoi, scopre l’irreparabile: la moglie ha una tresca con il capo agente locale. Scoppia un parapiglia, volano le urla – con grave pericolo di essere denunciati dai vicini di casa alla polizia locale – e soprattutto vola un portacenere che centra il vetro della porta che dà sulla sala». «Io mi spavento ma al contempo sono dentro una storia unica, mai capitata prima», John, a questo punto sghignazzando, racconta che i due litigavano in arabo ma lui capiva perfettamente quello che si dicevano, le solite cose che si dicono nelle storie di corna, poi il lancio del portacenere – «Ah, dimenticavo, è lei a lanciarlo», altre risate. Il vetro va in frantumi e scende il silenzio. La storia, che si confà ai piú triviali cliché, finisce che entrambi vengono cacciati di casa per ragioni di sicurezza e quindi nessuno sa se abbiano fatto pace oppure un nuovo amore abbia trionfato. Ora, per quanto mi riguarda, questa è probabilmente tra le storie piú belle che ho incontrato nella lunga strada che ho percorso tra la Francia e l’Iran: piú dei cooperanti eroi, piú dei poliziotti crudeli, piú dei trafficanti cinici e cristallini, piú dei migranti che si trasformano in nemici e combattono per la loro vita. Quell’uomo e quella donna di cui conosco solo la loro eredità lasciata sulla porta che dà sulla sala di un appartamento a Pristina, per me sono un esempio di resistenza. In particolare lei, ma anche lui con la sua reazione sopra le righe e poi la repentina ritirata dopo essere stato attaccato con un portacenere volante.

Questi esseri umani che nel mezzo di una tempesta, circondati da gente che li odia, inquadrati all’istante su base cromatica come nemici, sperduti nel nulla di un viaggio che li porterà, se va bene, ad ammucchiarsi con altri loro simili in qualche periferia disfatta e puzzolente, questi esseri umani che trovano il tempo, la voglia e il coraggio per innamorarsi, tradire, inferocirsi e soffrire. E aggiungere un nuovo guaio alla infinita sequela che li perseguita. Spesso ci si chiede quale sia il senso di far entrare queste persone – non entra quasi nessuno quindi è una domanda retorica – in Europa, nella quasi assoluta certezza che il massimo che l’Occidente capitalista può offrirgli è raccogliere frutta nei campi o fargli portare mediocre cibo sulle spalle di notte, in bicicletta. Ma da questa spuma dei nostri giorni, da queste storie minime di umanità che si inventa soluzioni di ogni tipo per resistere – perfino organizzare una tresca in Kosovo – vediamo la nostra ineluttabile prospettiva: uomini e donne che ce la faranno, butteremo fuori e riproveranno, metteremo i cannoni alle frontiere e quelli rimarranno lí intorno, ma prima o poi ce la faranno. Altro cosa c’era da vedere nel Kosovo, dopo una storia cosí bella? Sul bus notturno che mi portava a Pristina pensavo ai mille articoli letti su questo Paese che esiste e non esiste, la sua guerra, i giganteschi cartelloni che si vedono in Serbia con la scritta Kosovo is Serbia: a me piaceva pensare che il Paese piú povero dei Balcani, oggetto di forte emigrazione, fosse coinvolto nel flusso «migratorio».

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Evitare l’argomento guerra nei Balcani è difficile, in Kosovo è impossibile. Le statue di bronzo di Madeleine Albright, le gigantografie alte come palazzi di Bill Clinton, le bandiere statunitensi, i mezzi militari che ancora girano nel centro città sono solo la cornice di un quadro dalle tinte e dalle parole forti. «Qui tutti hanno un’arma in casa, non si sa mai»: una delle frasi che ho sentito da quando ho messo piede in Croazia, in Kosovo dilaga. Il militare è un gentleman: ha la mimetica, il basco, i gradi e le mostrine che raccontano le missioni compiute nella sua carriera. Bello, muscoloso, parla con termini forbiti e fa analisi morali, umane, economiche ma non solo: fa perfino domande su di me, chi sono, cosa faccio, una squisita cortesia figlia di qualche accademia militare.

Abbronzato, mani curate, sguardo dritto, il suo incedere è seguito da sguardi di ammirazione: mentre mi parla non posso non pensare a quegli uomini francesi vestiti di bianco che il capitano Benjamin Willard incontra nella giungla vietnamita di Apocalypse Now. L’uomo che incontro non fa discorsi bellicosi come quei francesi, mi pare tra le persone piú rette in questo circo di folli che ho attraversato fino ad ora. Ma non so perché io mi sento al cospetto di quei personaggi che si è inventato Francis Ford Coppola, forse per la sicurezza guerriera che emana dalle loro parole ben ponderate. Non mi racconta nulla di particolarmente interessante ma è la sua figura ad attrarre la mia attenzione: l’aura che emana sulla gente che ci circonda è sensuale e il suo semplice cammino è un atto di dominio. Esco dall’incontro con la certezza che i soldi che si riversano su questi Paesi per i migranti, e non solo, siano ben spesi, anche se la proverbiale corruzione balcanica si mangia tutto o quasi; l’alternativa è l’ipernazionalismo che cova e gonfia, in attesa della giusta scintilla che faccia scoppiare di nuovo tutto qui o nella componente serba della Bosnia, al momento sedato solo dalla presenza della Nato e delle sue truppe. «Noi siamo qui per evitare questo», mi dice l’uomo in divisa mentre fuma l’ennesima sigaretta e beve un caffè. Si dilungherà poi sul piano umanitario che copre le missioni di guerra: quei compiti ibridi che fanno assomigliare chi imbraccia i fucili a missionari cattolici o volontari di organizzazioni non governative. Esco dal locale e la pioggia cade come sempre, vedo il militare che si allontana a piedi con il basco in testa, salutato dalla folla che gli sorride calorosamente e si ferma a guardarlo.

Da “La guerra invisibile. Un viaggio sul fronte dell’odio contro i migranti” (Einaudi), di Maurizio Pagliassotti, p. 240, 18€

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