Patrimonio da proteggereLa siccità rende i navigli di Milano meno resilienti, e anche la biodiversità ne soffre

Il caldo anomalo e le scarse precipitazioni impattano negativamente sui tempi di reazione di questi canali artificiali, spesso stravolti dalle asciutte dovute a lavori di manutenzione molto invasivi. Ne parliamo con Simone Lunghi, il cosiddetto “Angelo dei Navigli”

LaPresse

Dalla fine del 1300 fino ai primi del ‘900, il metodo per trasportare il marmo dalla Cava di Candoglia – alle porte della Val d’Ossola – fino ai cantieri del Duomo di Milano è sempre stato lo stesso: via acqua dal lago Maggiore per il Ticino e attraverso il naviglio Grande. Il risultato? Niente di più e niente di meno che la quarta cattedrale più grande al mondo. 

I navigli sono stati una via di comunicazione imprescindibile per tutta la Pianura Padana, ma non solo. Per fare una metafora, questi canali erano le arterie e l’acqua il sangue di un territorio inizialmente inospitale, inadatto all’agricoltura e al commercio. Hanno ispirato Leonardo da Vinci (ne ha disegnato le chiuse), sono un piccolo patrimonio della biodiversità lombarda e rimangono un punto di riferimento a livello turistico, urbanistico e paesaggistico. 

Ora li vediamo ansimanti, cambiati. Dal 1929, anno della loro “chiusura” imposta dal regime fascista, hanno cambiato volto e non sono più tornati quelli di prima. Così il trasporto su strada ha preso definitivamente il sopravvento, con tutte le conseguenze ecologiche del caso. Ogni tanto la riapertura dei navigli torna in cima al dibattito pubblico meneghino: esce qualche progetto, un assessore o un candidato sindaco ne parla, sui social si diffondono rendering più o meno fantasiosi. È nata persino un’associazione. Ma, alla fine, non c’è mai nulla di particolarmente concreto o coniugabile con le esigenze del momento. 

Nell’epoca della crisi climatica, i navigli milanesi devono affrontare una nuova sfida. Parliamo ovviamente della siccità, che sta impattando negativamente sulla resilienza di questi ecosistemi spesso stravolti dalle asciutte dovute ai lavori di manutenzione. Contemporaneamente, il Comune di Milano starebbe pensando di abbassare il livello dei canali per convogliare l’acqua altrove, nella speranza di mitigare gli effetti di un’emergenza idrica che somiglia a un tunnel senza fine. 

Prima di immaginare il futuro dei navigli, bisogna però aver chiara la loro storia e la loro impronta sulla città che vediamo oggi. Lo sa bene Simone Lunghi, che questi canali li ha circumnavigati a bordo di un ibrido tra uno stand up paddle (Sup) gonfiabile e una piccola bici pieghevole. Ha percorso quattrocento chilometri in una settimana, dormendo da solo in tenda. 

A Milano lo conoscono in molti non solo per questa impresa a colpi di pagaia, ma anche per le sue spedizioni a bordo di Sup o canoe da cui raccoglie rifiuti di ogni tipo, persino ottocento biciclette nel giro di circa sei anni. Per questo, e per il suo lavoro di valorizzazione del territorio, ha vinto l’Ambrogino d’oro nel 2021. Soprannominato “Angelo dei Navigli”, Simone Lunghi organizza eventi, insegna canoa e canottaggio alla Canottieri San Cristoforo (d’inverno lo riconoscete: è quello con la bandana e la t-shirt a maniche corte), allena una squadra formata da pazienti oncologiche sulle dragon boat, conduce un programma di divulgazione su Telenova (“Sbarco in Lombardia”) ed è uno dei pochi personaggi autentici in una Milano sempre più patinata. 

Simone, i navigli hanno cambiato la storia, ma (oggi) nessuno lo sa. 
«Nel 1100 l’embrione del naviglio a Milano è nato come difesa dall’invasione di Federico Barbarossa. Nel 1200 è stato trasformato in un canale irriguo, dopodiché è diventato un canale commerciale. Da lì è iniziata una rivoluzione in grado di cambiare l’agricoltura e il commercio. I mulini, i torni e tutti i macchinari venivano per la prima volta alimentati con la forza meccanica dell’acqua e poi con la forza idroelettrica, permettendo alle fabbriche di diventare più efficienti. È da lì che è partito il sorpasso nei confronti del sud Italia». 

Quali sono le connessioni tra l’acqua artificiale e la realtà che viviamo tutti i giorni?
«Il discorso sull’acqua artificiale è andato completamente perso nel corso degli anni. Tutti, alle elementari, impariamo che il Tigri e l’Eufrate hanno reso grandi le civiltà della Mesopotamia. Poi c’è il Tevere per Roma, il Tamigi per Londra, la Senna per Parigi e poco altro. La Lombardia, com’era intesa nei secoli del Medioevo, essenzialmente era un posto molto insalubre, dove la gente non voleva vivere. Era un luogo di acqua molto acquitrinosa o di pianura arida. Dal punto di vista agricolo era il terzo mondo. Nel 1100 i monaci Umiliati, che erano i missionari di allora, sono andati a insediarsi nel posto peggiore possibile: la pianura padana. Hanno iniziato a fare un lavoro di riequilibrio idrico, canalizzando l’acqua nelle zone in cui c’era carenza». 

Simone Lunghi (Ph. Alessandro Barberio. Fonte: Simone Lunghi/Facebook)

E cosa scoprirono i monaci Umiliati? 
«Premessa: nel sottosuolo, l’acqua dei monti arriva a Milano con circa sei mesi di volano termico. Cosa significa? In pratica, l’acqua che arriva a Milano d’inverno è l’acqua che è caduta sui monti d’estate, e viceversa. Alla luce di ciò, nel 1200 gli Umiliati hanno scoperto che l’acqua procedeva verso il mare: dalla nostra pianura va da ovest verso est; se sei sopra il Po va da nord a sud; se sei sotto il Po da sud a nord. Tutta l’acqua confluisce verso Milano, che più o meno è il centro, ma lì non riesce più a procedere bene: essendo il suolo milanese argilloso, la risorsa idrica fa fatica a confluire. I monaci quindi hanno capito che, mettendo dei tronchi cavi nel sottosuolo, si poteva intercettare l’acqua e farla uscire tra i nove e i tredici gradi. Usciva, ed esce ancora adesso, d’estate a nove gradi e d’inverno a tredici gradi: questo effetto pazzesco è dovuto ai sei mesi di volano termico». 

Un punto di svolta per l’agricoltura. 
«Realizzando campi pianeggianti, ma con una leggerissima pendenza, i monaci hanno capito che l’acqua sarebbe scivolata via, tenendo a tredici gradi il suolo. In questo modo hanno evitato che il suolo gelasse d’inverno, ma non solo: sullo stesso appezzamento hanno notato che si poteva coltivare tantissimo. Tra le altre cose, questo ha comportato una sovrapproduzione di latte. E, visto che non sapevano come impiegarlo, hanno inventato il Grana Padano. È successo nell’Abbazia di Chiaravalle. Ci sono delle fortissime connessioni tra l’acqua artificiale e tutto quello che abbiamo ora». 

Perché, oggi, questi canali sono così sotto stress?
«Il naviglio – e quando parlo di “naviglio” intendo il Grande e il Pavese – è un canale irriguo che vive dei periodi di asciutta per motivi di manutenzione. Quest’anno, la strada tra Abbiategrasso e Gaggiano rischiava di crollare, quindi sono arrivati dei finanziamenti per dei grossi lavori di manutenzione che dovevano necessariamente partire dall’acqua. La Darsena non è stata toccata: l’acqua che vedevamo nei mesi scorsi era totalmente di falda, pompata da sei pozzi sotto al Parco Solari attraverso delle tubature. Il naviglio, però, è stato messo in secca totale per i lavori, e questo ha avuto – e avrà – un impatto sulla biodiversità. Tra pesci, rane, insetti, uccelli, piccoli mammiferi… C’è tutto un sistema di vasi comunicanti che, senza i soliti ambienti umidi, vive degli squilibri».

Poi c’è la siccità. 
«Questa non aiuta il naviglio a riprendersi dopo i periodi di secca dovuti alla manutenzione. In poche parole, non si ricreano gli stessi ecosistemi umidi con le rogge, i fontanili e via dicendo. Si tratta di ambienti in cui la falda è come se uscisse allo scoperto. Così rischiamo di creare una sorta di deserto. E ricordiamo che i navigli danno già l’acqua agli agricoltori, quindi anche lì potrebbe esserci un impatto. Viviamo in un ambiente estremamente antropizzato, anche dove ora vediamo solo i campi. In Lombardia è stato creato una specie di eden perfetto: ci sono quarantaduemila chilometri di rete irrigua artificiale. In quella capocchia di spillo che è la Pianura Padana, c’è più di tutto l’Equatore raggomitolato. Abbiamo la fortuna di avere degli invasi naturali enormi e un sistema capillare e autonomo di distribuzione dell’acqua, che resta in piedi anche grazie ai navigli. C’è poi un altro aspetto sottovalutato: il volume del corpo algare. Le alghe fanno volume, ma vengono tagliate per non far rallentare troppo la corsa dell’acqua».